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Nelle mie due precedenti opere di science-fiction (TNG e Meta Zero) e nel terzo racconto a cui sto attualmente lavorando, la mia base di riferimento è presa dalla controcultura pop degli anni Ottanta nota come cyberpunk. Gli autori di questa corrente letteraria sono, nello stesso tempo, all’interno e all'esterno dei canoni classici della fantascienza moderna: in una visione fiabesca della del loro approccio al genere li potremmo osservare scendere nello scantinato di un appartamento di lusso e accendere una luce al neon che mostrerebbe loro pareti in cemento grezzo e scaffali pieni di cianfrusaglie high-tech. Li vedremmo sedersi su una di quelle sedie pieghevoli in plastica e metallo di fronte ad un tavolo in fòrmica e bere de caffè americano da una tazza già sul tavolo dal giorno prima. Infine ascolteremo il battere dei tasti di una macchina da scrivere elettronica, magari un po' troppo usurata per lo scopo e rinforzata ai lati con del nastro isolante termico.
Ma perché il cyberpunk è così vicino alla nostra realtà rispetto alla più classica fantascienza come le space-opera?
È l’incontro tra il reale e l’invenzione, tra la cultura pop e l’evoluzione tecnologica non ancora pervenuta, tra la vita attuale e quella che sarà (o che sembra già essere).
Il cyberpunk ha mostrato -e mostra- quanto di più probabile riservi il prossimo futuro, e in parte è già riuscito nell’impresa: nella nostra vita attuale non ci sono alieni, viaggi interstellari e spazio-tempo, né stravolgimenti geopolitici tanto forti da cambiare la percezione di appartenenza alla nostra identità. Sono invece più marcati i cambiamenti sociali: la dissociazione di un'intera fetta generazionale dal reale al virtuale, il potere non percepito ma ben presente di mega-corporazioni, non solo industriali ma anche -e soprattutto- di servizi destinati alle interconnessioni o alle informatizzazioni che siano associate al termine "network". Poi ci sono mafie, governi corrotti e, non meno importanti, pirati informatici che abbiano fini più o meno nobili. Non stiamo parlando di complottismo, ma di evoluzione verso il basso di valori umani. Non è distopia: esiste un livello di benessere che dev’essere mantenuto in certi livelli della società, perché mantiene a sua volta la cima della piramide sociale.
Fedeli alle loro stesse visioni avanguardiste, sono stati gli stessi fautori del genere cyberpunk a dichiararlo morto. Una fine organica, legata al ciclo vitale del proprio tempo: perché rappresentante di un aspetto letterario delle tendenze tipiche degli anni Ottanta; perché il risultato della fusione di controculture come musica, moda, tecnologia e - appunto - letteratura è cambiato.
Ma in un certo senso, nessuna tendenza alla scoperta - o descrizione - delle evoluzioni sociali può dichiararsi morta: sarebbe il paradosso della stessa disciplina. C’è allora -per forza di cose- una continuazione. Prende il posto della precedente visione, analizza le controculture del ventunesimo secolo e le proietta nel ventiduesimo, le mostra attraverso la decentralizzazione di potere e informazioni, il crescente egoismo, l’evoluzione fisica attraverso cyber-, bio- e nano-tecnologie, il valore dei crediti misurati in valute virtuali (mai sentito parlare di criptovalute?), i processi neurali e di ricostruzione del corpo, l'evoluzione organica nel transumanesimo. Il cyberpunk muta nel postcyberpunk o in altri derivati bio e nano, e poi ancora in Italia nel connettivismo. Ma qualsiasi nome nuovo vogliamo dare ad un concetto -ad una cultura- già esistente o qualsiasi forma vogliamo che assuma, esso manterrà in sé sempre la stessa matrice da cui è derivato. Il cyberpunk resta cyberpunk, che se voglia disquisire per anni il concetto di base non è mai cambiato.
Ma allo stesso tempo però, mi chiedo: etichettare un genere, fissarlo nel proprio campo di appartenenza e reinventare la definizione, significa forse continuare il concetto d’avanguardia che ha mosso i primi scrittori del cyberpunk? Probabilmente sì.
La questione è condivisibile senza apparire forzata o artificiosa. Il cyberpunk -in qualsiasi modo vogliamo chiamarlo- osserva ancora il mondo nascosto della strada, della cultura pop, delle visioni tecno-futuriste che accompagnano hacker, mafiosi, antieroi, barboni, otaku e banditi di periferia. E lo fa mettendo in evidenza ossessioni e dipendenze: innesti muscolari, pornografia, droghe, ludopatia e qualsiasi altro tipo di eccesso o disturbo paranoico. Lo sfondo resta banalmente lo stesso: le città che conosciamo ma evolute; e in esse, seppure nel futuro, sappiamo orientarci senza troppo sforzo: siamo a casa. Ci sono le stesse persone che potremmo incontrare oggi nel nostro quartiere, forse più ciniche e sviluppate, ma con le quali possiamo ancora confrontarci. Una società immobile il cui istinto è sopraffare, prendere dal più debole: non ci ricorda nulla? E ancora: "evoluzione" come vicinanza tra comunicazione e comunità, ma distacco emozionale e personale.
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burtozwilson@etik.com