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Posted by bu on Sat, 26 Feb 2022 16:50:12 +0100 in “Citazioni”, “L’Internazionale” and tagged with “Bezmotivny”, “Guerra”, “Internazionale”, “Ucraina”
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Editoriale del numero 4 della rivista {BEZMOTIVNY[1]}, uscito a febbraio 2022 e dedicato alla crisi ucraina.
Quando i lettori avranno tra le mani queste righe la crisi in Ucraina potrebbe aver raggiunto il parossismo ed essersi scatenata nella sua drammatica precipitazione. O forse no. Alcuni passaggi potrebbero essere stati superati o smentiti dai fatti, o ancora in attesa di verifica. Non siamo preoccupati per un’eventuale inattualità di quanto stiamo scrivendo, giacché queste parole non possono che essere inattuali. Di fronte alla guerra l’anarchismo ha sempre mantenuto la stessa posizione che fu di Bakunin sin dai tempi del conflitto francoprussiano e della Comune. Conviene dunque partire dalle ovvietà.
Il nostro internazionalismo si traduce in un sentimento assolutamente semplice: le sfruttate e gli sfruttati, in Russia come negli Stati Uniti, in Ucraina come in Italia, sono le nostre sorelle e i nostri fratelli, il loro sangue è il nostro sangue; gli industriali e i boss della finanza, i generali e i signori ufficiali, i governi tutti, sono i nostri eterni nemici. Essendo mossi da sentimenti d’odio e d’amore eterni, le nostre passioni non possono che rifuggire dall’attualità, dai suoi opportunismi, da una valutazione paracula circa le condizioni e la propaganda del momento.
Eppure, onde evitare che questi alti sentimenti si risolvano in dei propositi astratti e innocui, buoni per mettersi la coscienza a posto e, in fondo, per trovare per una via un po’ più tortuosa, ma proprio per questo ancor più ipocrita, la propria sistemazione, l’accomodamento in una posizione opportunistica, a questi propositi ne va aggiunto un altro: la sola pratica compatibile col discorso internazionalista è quella che pone come nemico principale il proprio governo, il proprio Stato, il proprio blocco imperialista.
Rifuggiamo dunque da ogni tentazione frontista, rigettando tanto le posizioni di quanti in nome del pluralismo e dei diritti umani sono tentati dal serrare i ranghi sotto le liberali insegne occidentali, quanto quelle di coloro che nel nome di un antiamericanismo e di un sovietismo nostalgico sono tentati dalla partigianeria filorussa.
Il prezzo della guerra come sempre lo pagano i proletari e da mesi lo stiamo già pagando, anticipatamente, con l’aumento delle tariffe delle bollette, del carburante e, a cascata, con la dinamica inflazionistica che sta coinvolgendo tutte le merci. Un processo che si intreccia con la dinamica speculativa messa in moto dalla ripartenza economica a seguito della crisi provocata dalla pandemia. Questo è il prezzo della speculazione, è il prezzo delle rappresaglie di Putin, è il prezzo dell’avventurismo di Biden, è il prezzo del servilismo di Draghi. Questi signori sono i nostri affamatori, nessuno di loro è nostro amico.
Ammesso che la crisi in corso non si risolva in un olocausto nucleare (ipotesi molto improbabile, ma comunque non impossibile), nella «migliore» delle ipotesi, alle nostre «privilegiate» latitudini, il prezzo che pagheremo con la guerra in Ucraina sarà quello di un impoverimento fino a pochi anni fa inimmaginabile nella bambagia europea a cui eravamo abituati: gli attuali aumenti del carburante e dell’energia, e con essi di tutte le merci, potrebbero rappresentare un accenno nemmeno comparabile con quello con cui avremo a che fare. La stessa continuità energetica, con le condizioni di comfort date per scontate da mezzo secolo dalle persone in questa regione del pianeta, potrebbe non essere garantita, tanto più in una condizione nella quale l’energia che c’è deve essere utilizzata per i superiori scopi dell’industria bellica.
Forse il più grande insegnamento, generalmente trascurato, della vicenda pandemica è stato nel tramonto della cosiddetta «società dei consumi». In quei giorni della primavera del 2020 con i supermercati parzialmente chiusi, con interi prodotti di cui era vietata la vendita, è avvenuto un fenomeno inedito per chi, come chi scrive, è da sempre vissuto in una società dove il consumismo era quasi una religione. Il governo ha voluto lanciare un messaggio che evidentemente non aveva niente a che vedere con la salute pubblica: un messaggio di austerità morale. È un momento difficile, i cittadini lo devono capire anche attraverso un sacrificio quaresimale. D’altro canto, già allora ci dicevano «siamo in guerra», anticipando i nuovi sacrifici a venire.
Un anno dopo, il presidente della Confindustria ha proposto un’analisi molto interessante. Intervenendo all’assemblea nazionale dell’organizzazione padronale lo scorso 23 settembre, più lucido di tanti imprenditori che invocano il distopico «ritorno al mondo di prima», Carlo Bonomi ha chiarito che «passerà molto tempo, purtroppo, prima che la domanda interna di consumi possa tornare a essere un driver potente di crescita». Il grande capitale sa bene che in questo periodo storico non è sui consumi interni che deve fondarsi la crescita. Più di recente, il 12 febbraio, il direttore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha dichiarato che bisogna assolutamente evitare una spirale prezzi-salari: «non si batte l’inflazione aumentando i salari», se i prezzi aumentano gli sfruttati si devono impoverire, altrimenti dove sta la fregatura? Lorsignori sanno che, guerra o non guerra, la proletarizzazione è la cifra dei fenomeni sociali dei prossimi anni.
Tornando alla guerra, dunque, quello che appare più probabile, scartate le ipotesi più drammatiche di una vera e propria escalation nucleare tra le potenze (che comunque, va ribadito, non è da escludersi), è che il prezzo che gli sfruttati di questa parte del pianeta pagheranno sarà un ulteriore giro di vite in senso austeritario e autoritario. Il tutto accade nel mentre, come una vipera, se ne sta in agguato la velenosa ipotesi del nucleare, panacea per ogni malanno della nostra industria. Una sirena, quella nuclearista, nient’affatto da sottovalutare: soprattutto se le cose si mettono davvero male con la Russia che chiude definitivamente i rubinetti del metano (o gli USA che obbligano l’Europa a rinunciarvi), di fronte alle necessità militari, industriali e agli stessi disagi sulla popolazione ormai ossessionata di fronte alla coazione a ripetere del sogno reazionario del «tornare alla vita di prima» (immaginiamoci quanto si farà potente questa pressione se la gente si trovasse senza luce e gas), ecco che l’ipotesi nuclearista diventerà addirittura irresistibile.
Un elemento, al contrario, di controtendenza rispetto a quanto accaduto negli ultimi anni sta nel ritorno della «politica» sul dominio incontrastato della tecnica di cui ci parlano i fatti ucraini. La guerra in Ucraina per una volta non sembra una guerra economica, ma una guerra di dominio politico e militare. La stessa questione del metano non è il fenomeno, ma un fenomeno conseguente, una rappresaglia nelle scelte del risiko politicomilitare. Provocata da una costante e aggressiva espansione a est della NATO, la reazione della Russia mira non tanto alla conquista di giacimenti e risorse, ma è motivata dalla pretesa tutta militare di non dover sopportare la presenza di basi militari americane al proprio confine, oltre che da un orgoglio e una nostalgia del tutto ideologici per i bei tempi imperiali andati. Le risorse energetiche sono semmai una clava con cui minacciarsi vicendevolmente.
Lasciando dunque agli anarchici russi, ucraini, bielorussi la cronaca e le analisi di quanto accade dalla loro parte del fronte, delle loro battaglie contro l’autoritarismo dei rispettivi governi, contro il quale si battono al prezzo di arresti, torture e morti, con quello spirito internazionalista per il quale il principale nemico è per me sempre incarnato dal mio governo e dai suoi alleati, vorremmo brevemente soffermarci su ciò che accade dalla «nostra» parte del fronte di guerra.
La vittoria di Biden ha rappresentato un’accelerazione evidente dei pericoli militaristici. La scommessa geopolitica di Trump si fondava sulla possibilità, se non di una alleanza, quanto meno del mantenimento di buoni rapporti con Putin in chiave anti-cinese. In tal senso il temibile Trump ha finito per diventare il primo presidente degli Stati Uniti che dopo molti lustri non ha aperto nuovi fronti di guerra. Incredibile, in tal senso, la cantonata politica presa in modo pressoché unanime dall’estrema sinistra nordamericana. Quando una storica militante comunista, femminista e nera come Angela Davis lancia il suo endorsement per Biden e Harris, questo non ci indica solo il tradimento individuale di una burocrate del movimento, ma una sbandata collettiva di un’intera area politica (dimostrata per esempio dal fatto che Davis non venga contestata negli ambienti militanti). Non è soltanto un tradimento del rifiuto anarchico delle elezioni (dai politicanti comunisti ci si aspetta questo e altro), ma è proprio sbagliata l’analisi specifica, in quanto Biden e Harris per la pace nel mondo erano evidentemente il «male maggiore».
Uno degli errori che viene imputato a Biden persino da una parte della sinistra mainstream (in questo senso abbiamo letto di recente dei pezzi sul Manifesto e su Fanpage) è quello di «regalare» la Russia alla Cina. Stringendo in maniera aggressiva il regime di Putin, i nordamericani lo stanno spingendo ad allearsi con quello di Xi. L’alleanza della seconda potenza militare al mondo col paese che rappresenta la prima potenza tecnologica e – per pochi anni ancora – la seconda potenza economica, può davvero diventare l’effetto detonante per una catastrofe militare mondiale. Di fronte alla eventualità che le armi russe comincino a montare tecnologia cinese, potrebbe sul serio saltare alla mente a qualche boia del Pentagono l’idea che un attacco nucleare preventivo possa essere un’ipotesi migliore rispetto alla possibilità di lunghi anni di integrazione militare dei loro più temibili avversari.
Venendo all’Italia, da sempre all’avanguardia nella sperimentazione di nuovi regimi politici, sembra che il governo di Unità Nazionale resista e si confermi nel medio periodo come la cifra degli intrighi politici del bel paese, magari da emulare in altre nazioni europee in caso di un aggravamento della crisi. L’Unità Nazionale è un concetto che va ben compreso. Questa forma di governo può somigliare, ma si differenzia essenzialmente dal classico governo tecnico appoggiato dall’unanimità delle forze politiche. L’Unità Nazionale è un governo eminentemente politico, un governo di fronte politico e sociale: in questo senso all’Unità Nazionale aderisce anche il sindacato nel momento in cui opera per la più completa collaborazione e pacificazione interna; in questo stesso senso aderiscono a esso anche i tecnici, in quanto la Tecnica è oggi una potenza socio-politica. In una parola, il governo di Unità Nazionale è un governo di guerra.
Come internazionalisti che sono stati condannati o privilegiati – dipende dai punti di vista – a vivere a queste latitudini, il compito che ci si impone è quello del sabotaggio, del deragliamento, del disfacimento con ogni mezzo dell’Unità Nazionale e del clima mortifero di pace sociale che questa genera. È l’appuntamento dei prossimi mesi al quale non possiamo assolutamente mancare. L’Unità Nazionale prepara in altre parole alla pace interna tra le classi e alla guerra esterna tra le nazioni. Il nostro internazionalismo ha sempre gridato al contrario: nessuna guerra tra i popoli e nessuna pace tra le classi. Con Galleani noi ripetiamo di essere contro la guerra e contro la pace, ma per la rivoluzione sociale.
L’internazionalismo è però, ancora, soltanto un sentimento. Per quanto corretto dal principio secondo il quale il mio governo è il mio principale nemico, come ogni sentimento anche l’internazionalismo contiene un ché di ineffabile. Il passo coraggioso che dovremmo fare è quello di passare dall’internazionalismo all’Internazionale. Cioè ragionare e diffondere concretamente una cospirazione storica, informale, ma reale, dei rivoluzionari di tutto il mondo. Una «organizzazione», per quanto questo termine ci faccia paura e ci attiri gli occhi della repressione. Ma quali sono le alternative? La fame, la guerra e la morte. L’organizzazione della vita umana associata fondata sulla gerarchia e sul profitto ormai ha dimostrato di non poter governare la complessità che ha generato e ci sta trascinando tutti verso la catastrofe – sanitaria, ecologica e militare. Solo una rivoluzione mondiale ci può salvare. Mettiamoci all’opera.
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