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Alla fine mi trovo sempre a scrivere, fra l’altro di cose di poco conto e riflessioni personalissime prive di fondamento concreto o oggettivo, nei momenti in cui ciò di cui tratto più mi manca. Meglio: scrivo di tutto quello che vorrei sistemare nella mia bellissima, fortunata, peraltro confusa, scombussolata ed incerta vita solo nei periodi in cui la sua confusione è massima. In pratica, butto giù due parole per me, per confortarmi, per dimostrarmi che anche se non combino un fico secco a blaterare e fare bella figura sono ancora in grado.
<figure><img class='u-photo' src='{{ image }}' alt='una persona che fa una foto a un’altra persona da un punto lontano'><figcaption>Non c’è nulla di più frammentato di due persone che fanno una foto allo stesso tipo in posa. Montjuic Castle, Barcellona, aprile 2019</figcaption></figure>
Poi, alla fine, per trasformare questi minuti persi a digitare assurde teorie (di nuovo: che nella maggior parte dei casi non hanno alcun fondamento al di fuori della mia esistenza) le rovescio nel mio blog, così, perché pensare che scrivo su un “mio blog” mi fa trovare qualcosa di unico, speciale o migliore rispetto ad altri, quando invece non c’è.
Questa premessa pesante e logorroica (che poi lo sapete che non riesco a fare a meno di tutti questi fronzoli e perifrasi per divertirmi un po’) per dire che anche stavolta mi sono illuso di avere trovato la fonte primaria che alimenta la forza che tiene separata la mia esistenza dalla felicità e, di nuovo, credo valga anche per voi altri, ma questo non posso saperlo finché non mi dite che siete d’accordo.
Giungendo finalmente al punto: ho scoperto che quello che mi sta impedendo di omnes horas complectere (trad. trattenere con forza ogni momento Seneca, Epistulae morales ad Lucilium 1) è la frammentarietà (che forse è meglio frammentazione, ma mi piace di più così).
Non mi sento di dare una definizione contingente a questo termine, ma vorrei rendere l’idea del suo preoccupante significato guidandovi attraverso il mio stesso ragionamento, che mi ha portato al vocabolo perfetto per descrivere quello che io ormai ritengo uno dei più grandi sintomi di quella malattia che è l’infelicità: per quanto tempo siamo in grado di svolgere senza sosta una stessa azione? Quante pagine di un libro riusciamo a sfogliare prima che l’ennesimo ding di una notifica ci convinca ad impugnare quell’affare tremendo e controllare cosa ci stiamo perdendo? Quanto è difficile guardare fino in fondo un video su YouTube se dura più di 10 minuti (e ho esagerato per eccesso)?
Ecco, questi sono alcuni banali esempi di quanto il mondo della comunicazione stia influenzando l’esistenza dell’individuo soddisfacendolo nella maniera in cui si sta rivelando più efficace: con frammenti di intrattenimento, pillole, bocconi, carichi il più possibile di contenuti immediati e forti, densi, concentrati e ridotti all’osso, perché ci interessa avere tutto subito (ok, sono caduto in un cliché detto e ridetto, ma ora prometto che cerco di andare più a fondo).
Uno potrebbe chiedermi perché cavolo dovrebbero interessargli tutte queste astruse elucubrazioni se a lui va bene controllare instagram ogni 5 minuti eccetera perché gli viene naturale e non ha problemi al riguardo.
Io gli direi: prova stare senza. Prova a cambiare. Tenta con tutte le tue forze di riacquistare la consapevolezza che la frammentazione dell’esistenza ti ha tolto. Sarà difficile, ma ti renderai conto di come eri messo peggio prima.
Io sono stato bene. Sono stato felice, sono stato sollevato, sono stato spensierato. Ma non spensierato perché abbandonato alla superficialità, ma perché vivente in una condizione di vita autentica per cui, come dice Lo Stato Sociale, più sei leggera, meno sei superficiale.
So che può sembrare esagerato e forte, ma anche io, quando mi è venuto in mente, mi sono sorpreso di quanto effettivamente questo paragone sia coerente:
la frammentazione della vita di adesso è l’eroina negli anni ’80. Io non c’ero, non posso che immaginare le atrocità di quello che si rivelò essere un problema sociale gravissimo. Eppure, da quello che Wikipedia e gli amici di LIBERA mi hanno raccontato, posso dire che mi sembra che l’intero mondo si stia distruggendo come stava facendo allora.
Ci sono tre fondamentali differenze, però:
1. Per quanto problematica possa essere, la frammentazione non sarà mai una droga o paragonabile all’eroina; io mi sto allarmando della situazione sociale che scaturisce dall'incapacità individuale di concentrazione, non la dipendenza patologica da una sostanza terribile.
2. Chi si faceva (e si fa) di eroina, una volta era un emarginato, un poveraccio, uno che a stento si reggeva in piedi e veniva purtroppo abbandonato a sé stesso; ora, più uno frammenta la sua vita, più è normale: è normale controllare ogni tre secondi i messaggi, è normale avere mille cose contemporaneamente nella testa, è un pregio essere multitasking. Intendo dire che oggi stiamo accettando come normale una situazione allarmante. Perché?
3. Perché quella della frammentazione è una dipendenza subdola, un sintomo che ha effetto non palesandosi, ma insinuandosi nella quotidianità, e alla lunga prendendo il suo posto.
Non aggiungo altro, spero di aver reso l’idea della mia preoccupazione e soprattutto spero non risulti esagerata una similitudine così potente.
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Concludo con Mirko, che ha capito tutto e con questa canzone trasmette questo messaggio d’allarme meglio di me con millemila parole.
(Ci sono alcuni mondi che sono rimasti protetti e resistono alla frammentazione, ma ora si era fatta troppo lunga e vado a sentire Giancarlo Caselli che parla qui a Riva per il 25 aprile e sono in ritardo, alla prossima, dunque.)
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