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1996-04-14
Non avevo molta voglia di andare a scuola, stamani. Nemmeno di svegliarmi a dir la verità. Me ne sarei stato volentieri a letto, tra le braccia il cuscino. Rincantucciato nel calduccio di questo mattino di mezzo Aprile, con le tapparelle abbassate e gli occhi chiusi.
A volte mi rimprovero per la mia pigrizia. Vorrei essere un tipo scattante, atletico; di quelli che alle 6.30 sono già in piedi, felici e attivi come i parà della Folgore; pronti ad affrontare la dura lotta per l'esistenza, contro l'inferno della normalità. Ma la mattina, il letto è il tuo amico migliore, come una strana calamita ti attrae e ti coinvolge nuovamente negli assurdi viaggi onirici notturni; immagini confuse, vaneggianti rifioriscono nella tua mente. Sei perso nel tuo cervello, confondi la struggente realtà e la selvaggia fantasia.
No, non scoprirmi! Ho freddo! Il crudele aguzzino, impassibile alle mie preghiere, completa la sua opera distruttrice. Carthago delenda est! L'ultimo baluardo delle sei ore più attive del giorno, non sopravviverà più dei fatidici 2 minuti concessi al condannato a morte.
In piedi verso un nuovo giorno. Gli occhi non si decidono ad aprirsi completamente; spenti vagano tra camera, corridoio, bagno. Ricevono l'acqua gelida fonte di rinnovamento esistenziale.
A volte la mattina, colto dal generale risveglio dei sensi, l'organo eretto finge di non capire i miei assonnati ordini. Piscia! Piscia! Gli dico. Ma la torre Eiffel (va bè, la torretta della Siemes di Cassina) non ascolta, impassibile nel suo turgore mattutino. Poi a cinquant'anni mi ritroverò impotente per aver sprecato tutte le erezioni in questi mattini diciasett-quasidiciottenni, ormai ne ho la certezza.
Dopo due minuti buoni d'imprecazioni davanti allo specchio adiacente il water, a passi lenti e scomposti mi dirigo, sonnambulo, verso la cucina. Giornale! Richiedo con forza, ottenendo il buon vecchio Corriere fresco di stampa, di cui, peraltro, riesco a malapena a decifrare i titoli e la vignetta della pagina della posta. Risate (Ah, Ah, Ah!).
Tragico dubbio postcolazione. Lenti od occhiali? Meglio la sicurezza di un'acutissima vista, o lo scazzo degli occhiali, che danno fastidio, che sono scomodi, che sono da rifare perché nel frattempo ho perso qualche dozzina di diottrie, che poi userò solo nelle ore di matematica e quando sono assolutamente necessari, rassegnandomi a brancolare nel buio per le rimanenti ventitré ore? La risposta è gli occhiali, ovviamente, che mi consentono di risparmiare quei dieci minuti di scazzo necessari per sciacquare ed indossare (to wear) gli odiosi strumenti di morte che, di per sé non danno neanche fastidio!
Preparo la cartella al suono del "Rai, Giornale Radio 2"; la preparo per esclusione: il libro di matematica non serve tanto usiamo le fotocopie, quello d'italiano è troppo pesante, latino sono anni che l'ho perso nei meandri più oscuri della giungla di casa mia, filosofia già sgamato, storia non ancora ma-chi-se-ne-frega-al-massimo-me-lo-faccio-prestare, eccetera. Spesso interrotto da frasi del tipo, muoviti ch'è tardi, non sei ancora uscito, guarda che perdi il pullman, ma ti muovi, sei ancora lì, e tante altre.
Pullman, dunque. Tempo fa, nello splendore della mia adolescenza appena sbocciata e non ancora rovinata dagli eccessi e dallo scorrere della vita moderna, ero allegro, davanti alla fermata, parlavo con i tipi/e del mio condominio, salivo sul pullman saltellando e fischiettando (magari fischiettando no, ma quasi!). Mi sedevo negli ultimi posti in fondo, i posti aristocratici di un pullman allora mezzo vuoto, non sovraccaricato dalla fuga di massa cassinese dal liceo di Melzo.
Discorrevo per i venti minuti del viaggio, dei temi di cui discorrono abitualmente i primini quattordicenni; vale a dire Beverly Hills 90210, Non è la Rai, ed altre amenità del genere.
Poi, come un cancro che, inesorabile, invade tessuti ed organi vitali, lo scazzo si è fatto strada in me. Abbandonai la gente del fondo del pullman per ritirarmi nei più calmi e pacati primi posti, dove la tranquillità, un'atmosfera onirica e irreale mi avvolge e attanaglia. Nel buio d'inverno, rinchiuso nella mia giacca dell'aviazione sovietica malconcia e spiegazzata come quasi tutti i miei capi d'abbigliamento, mi ripiego nell'estasi del sonno mattutino, in pace coi sensi e col mondo; sballottato dolcemente dagli ammortizzatori scarichi del pullman paleolitico (probabilmente sotto non c'è il motore, ma schiavi che pedalano) mi adagio sui due sedili morbidi e polverosi, reclino la testa da un lato, occhi chiusi e braccia conserte.
Nel buio d'inverno, mi riesce difficile persino rimediare ai pomeriggi galeotti, passati al bar, o alla stazione del Metrò con quattro amici, piuttosto che nella compassata e indecifrabile compagnia della Termochimica e sue implicazioni nel mondo Biologico. Persino a copiare i compiti, un tempo mio passatempo preferito, in questo finale di liceo, non ha più alcun senso (prof., ieri mi è morto il gatto, il cane s'è mangiato il foglio, ho sbagliato pensavo ci fosse storia\...). Allora dormo, sul pullman, recupero gli ultimi minuti di sonno, rubati al giorno prima.
Colla bella stagione è tutto diverso. E' il sole che ti grida: Sveglia! apri gli occhi al mondo! La natura si è svegliata e tu, residuato bellico inceppato, dormi i tuoi inutili sonni da post-pubertà?
E allora mi sveglio, occhi attenti alla strada, non ancora in grado di mettere insieme tre parole di senso compiuto, ma con la mente protesa alle cinque ore di tortura (degna della santa inquisizione), intervallate da quei 3 minuti 3 che ritemprano il corpo e lo spirito.
Com'è bello il cambio dell'ora, il vocio di sottofondo che si trasforma in frastuono assordante, la gente che si alza in fretta per sgranchirsi le gambe, correre (mica tanto) al bar, fumarsi la sigaretta (io, nella fattispecie), il corridoio affollato e festoso (chissà poi perché); il professore sgomento davanti alla massa plaudente e chiassosa. Vedo nei suoi occhi l'angoscia dell'impotenza, la perdita totale del potere e dell'autorità.
Sceso dal Pullman, arrivo a scuola. C'è gente all'entrata di Sanfe, fumano e parlano. Saluto. Passo e arrivo in classe dove abbandono vestiario pesante e zaino mezzo vuoto. L'atrio della scuola è deserto e desolante, la mattina, al mio arrivo. Vuoto. Freddo. Mi riscaldo con un tè della macchinetta.
Il rituale del tè la mattina è l'ultima testimonianza d'un lontano passato quando, portafoglio rigonfio, mi recavo al bar e spendevo un'enormità in generi alimentari di vario genere, dal panino con la nutella, alle cicche, alle brioches calde. A tutto questo la recessione personale delle mie finanze ha posto un freno. Il mio decadimento finanziario raggiunge vertici angoscianti verso metà settimana, quando finiti gli, ultimi spiccioli, vago, tremebondo, per la scuola, elemosinando il prestito del millino, della sigaretta, ecc. C'è gente a scuola che sembra svenire quando gli chiedi una sigaretta, fa di tutto per cambiare argomento e quando finalmente la sgancia lo fa con mani tremanti, da eroinomane perso. Altri, astuti come triglie, portano sempre due sigarette di numero, in modo da essere esentati dal dazio della gente povera o taccagna (al ché, alla quarta volta in dieci giorni che chiedo loro una sigaretta e mi rispondono che ne hanno solo due, tiro giù tante madonne\...). Altri ancora s'impongono, perfidi, con un: Ce l'ho ma non te la do! (Stronzi).
Anch'io, devo ammetterlo, a volte ho finto di non avere sigarette per evitare di darle in giro, ma di solito cerco di essere disponibile, in modo che, quando i miei fondi scarseggiano, posso essere ricambiato con l'agognata nicotina.
Già, la nicotina. Dolce amica mortale. Cosa sarebbe, mi chiedo a volte, la mia vita senza di essa (Probabilmente uguale, ma con qualche soldo e un po' di fiato in più). Una sola sigaretta mi è necessaria veramente: la prima sigaretta della mattina.
Il rituale dell'accensione, lento e metodico, con ancora il sapore di tè caldo in bocca. Il fumo bianco che entra nei polmoni, portandosi dietro quella strana sensazione, quel gusto indecifrabile. Il cervello che, scosso, lentamente si risveglia, per raggiungere l'efficienza totale con l'ultimo tiro, il più bello e malinconico, il più lungo, prima dell'inevitabile e triste addio alla sigaretta, dolce compagna di attimi intensi e fumosi, persa per sempre.
Mi chiedo a volte chi abbia inventato i pacchetti di sigarette. Sono subdoli e maligni oggetti, d'una perversità ingannevole e bugiarda. Il pacchetto da 20 nuovo è bellissimo, luccica di splendore e leggiadria. Tutte le sigarette sono disposte in ordine perfetto al suo interno non esistono spazi vuoti. Quando compri un pacchetto nuovo e lo apri, scartandolo con atti lenti e decisi, ti senti il padrone dell'universo. Le sigarette racchiuse, perfettamente cilindriche ti sembrano un'enormità. Ti sembra che mai potrai fumare tutti quei cilindretti bianchi e meravigliosi. Effettivamente, poche ore dopo, quando già 7 od 8 sigarette mancano al tuo appello non sembra che sia successo niente. Il tuo senso d'onnipotenza rimane immutato. Il pacchetto è ancora pieno, perfetto, intonso.
Arrivato intorno ai 2/3 di pacchetto, però, succede l'imponderabile. D'un tratto, da una sigaretta con l'altra, quelle che sembravano infinite e perfette, diventano misere, ultime, sconsolate superstiti d'un campo di sterminio. Piangono sconsolate, nude nella loro pochezza, ignobili, solitarie. Da un momento con l'altro, non sei più il signore del mondo. Sei un piccolo uomo con un pacchetto mezzo vuoto e altre Lire 3'600 da racimolare, per comprare un altro pacchetto di Diana Blu (o 3'000 per le Malboro dal marocchino che però, di solito, fanno schifo).
Scorrono le ultime parole, prima della campana, che inesorabile scandisce i tempi del Liceo Scientifico Niccolò Machiavelli e di cui si sussurra essere regolata dal maligno, in modo da allungare le ore più noiose e accorciare le ore buche e l'intervallo del povero studente. Io sono assolutamente certo che essa è regolata da un preciso orologio al quarzo e che l'ora dura né un secondo di più, né un secondo di meno di quanto deve durare. Confesso, però, che dopo alcune interminabili ore (di quelle che accorciano la vita di due mesi), per qualche momento, solo per qualche momento, l'ho creduto anch'io.