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La nascita del capitalismo

Posted by bu on Tue, 15 Jan 2019 01:21:03 +0100 in “Citazioni”, “Lavoro”, “L’Internazionale”, “Psicocose”, “Religione”, “Salute”, “Storia” and tagged with “Accumulazione originaria”, “Era necessario il capitalismo?”, “Hosea Jaffe”

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Da /Era necessario il capitalismo?/, di Hosea Jaffe

/L’olocausto degli «indios» e della loro civiltà

ad opera del capitalismo/

La tesi che vuole far risalire la nascita del «capitalismo vero e proprio» alla «rivoluzione industriale» inglese tende a omettere quelle che sono le fondamenta reali del capitalismo stesso, ovvero l’ipersfruttamento e l’oppressione razzistica dei lavoratori coloniali, che per tanto tempo hanno costituito la maggioranza del «proletariato» globale (compresi i proletari contadini){1[1]}.

Diversi studiosi condividono la tesi di Silvio Serino secondo cui «le malattie introdotte dagli europei nel “nuovo mondo” furono il principale strumento attraverso cui si attuò il più grande genocidio della storia e si realizzò la conquista»{2[2]}. Tra gli altri ricordiamo Alfred Crosby e David E. Stannard{3[3]}. Ma Tzvetan Todorov, /inter alia/, considerava l’epidemia di vaiolo una causa secondaria del genocidio degli «indios» (chiamati così soltanto perché Colombo riteneva di aver raggiunto l’India), a confronto con la guerra di conquista spagnola e l’ipersfruttamento nelle miniere di argento e nelle piantagioni{4[4]}.

In effetti il più noto /conquistador/, Cortez, vessava non meno di cinquantamila «indios» nella sua piantagione principale. A quei tempi, ovvero all’inizio del XVI secolo, e fino al XX secolo, non esistevano in Europa gruppi di lavoratori altrettanto numerosi in una singola fabbrica o in una singola piantagione. Todorov scrisse che

[...] nel 1500 la popolazione globale era composta da circa 400 milioni di abitanti, 80 milioni dei quali risiedevano in America. Verso la fine del XVI secolo, di questi 80 milioni ne rimanevano 10. Limitando il nostro discorso al Messico, all’inizio della conquista la popolazione si aggirava intorno ai 25 milioni di abitanti; nel 1600 erano stati ridotti a un milione{5[5]}.

Alcuni missionari spagnoli che giunsero in America a ridosso del periodo delle conquiste (tra il 1492 e il 1512), come Las Casas, testimoniarono che la causa principale dell’enorme numero di morti non furono tanto il vaiolo e altre epidemie, ma la crudeltà degli spagnoli in guerra, nello sfruttamento, nell’affamamento e nella tortura, il terrore cronico che veniva dall’essere confinati nelle miniere d’oro e d’argento, i suicidi di massa dovuti alla claustrofobia, le esecuzioni di massa, la cristianizzazione forzata, l’uccisione dei capi degli stati precolombiani, la distruzione degli edifici delle città-stato, delle case, dei templi, dei luoghi d’insegnamento, e la cancellazione dell’industria, dell’artigianato e delle arti locali{6[6]}.

Las Casas era un domenicano che si opponeva al genocidio spagnolo degli «indios». Raccomandò a Carlo V, imperatore del sacro romano impero e re di Spagna, di esportare schiavi dall’Africa verso l’America spagnola e portoghese. Carlo V accettò il consiglio.

I resoconti di Las Casas sulle atrocità spagnole furono confermati da quelli di molti altri cattolici – Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés{7[7]}, il quale fu testimone delle atrocità commesse tra il 1512 e il 1521 a danno dei lavoratori di Cortez, e Toribio da Benevento (conosciuto come Motolinia){8[8]} – e forse soprattutto dalle testimonianze prive di pregiudizi razziali e intrise di sofferenza raccolte dal «meticcio» messicano Juan Bautista Pomar, che le diede alle stampe nel 1582{9[9]}. Secondo tutte queste fonti il genocidio sterminò il 90% della popolazione «india», e questa stima trova riscontro nelle ricerche condotte da studiosi inglesi e statunitensi in America centrale e meridionale nel XX e XXI secolo. Uno di questi studiosi, N.D. Cook, sosteneva – come Las Casas – che la principale causa di morte tra i nativi fu la violenza spagnola{10[10]}: le malattie furono il colpo di grazia che mise al tappeto la popolazione dei nativi, già ridotta in condizioni miserrime dai soldati spagnoli, dalla fame forzata, dalle psicopatologie derivanti dal confinamento nelle miniere e nei ghetti urbani e rurali, dai quotidiani abusi razzistici, dalle torture e dall’ignobile distruzione e cancellazione degli ultimi residui delle grandi civiltà precolombiane degli Aztechi, dei Toltechi, dei Maya e degli Inca.

Nonostante gli scritti di Las Casas, Oviedo y Valdes, Motolinia e Pomar, redatti proprio durante il genocidio spagnolo (e quello portoghese, dopo che Cabral «scoprì» il Brasile, nel 1500, portato dai venti alle coste nord-orientali del Sudamerica mentre cercava di raggiungere l’India sud-orientale attraverso la circumnavigazione del Capo), a distanza di mezzo millennio gli «studiosi» eurocentrici del XX secolo, sulla base di una mentalità profondamente razzista, ridimensionavano di oltre il 60% l’entità del genocidio rispetto a quella originariamente e direttamente testimoniata. Tra questi figuravano Alfred Kroeber della «Berkeley School», il quale nel 1939 proclamò che in epoca precolombiana la popolazione «india» era composta da circa 8 milioni di persone, compresi i 3,2 milioni in Messico{11[11]}, e Angel Rosenblat, che nel 1954 produsse una stima, riferita al 1500 d.C., di circa 13,4 milioni di persone in tutta l’America, inclusiva di 4,4 milioni di persone in Messico{12[12]}. Ma nel 1971, in una pubblicazione della stessa «Berkeley School», S. Cook e W.W. Borah avevano stimato in oltre 200.000 persone la popolazione della sola Tenochtitlan (che secondo quelle stime era dunque più popolosa della Siviglia spagnola nello stesso periodo){13[13]}.

Il dato più realistico sul numero totale degli abitanti autoctoni del continente americano preolocausto fu stimato nel 1966 da Henry Dobyns: dai 100 ai 145 milioni{14[14]}. L’archeologia moderna ha portato alla luce concentrazioni urbane piramidali negli stessi Stati Uniti. A quei tempi la Russia e l’Europa avevano una popolazione di circa 100 milioni di persone. Tutti i dati scientifici dimostrano che l’America precapitalista aveva un numero di abitanti equivalente a quello dell’Europa, dell’India e della Cina, e che la civilizzazione capitalista europea distrusse le civiltà native gettando sulle loro macerie e sui cadaveri di oltre 100 milioni di nativi le fondamenta americane del modo di produzione capitalista.

L’olocausto europeo degli «indios» nel XVI secolo, perpetrato fino alla fine del XIX secolo all’insegna della «conquista dell’ovest», fu reiterato nei Caraibi fin dal primo sbarco di Colombo su quelle terre, poi con il traffico di schiavi europeo attraverso l’Africa occidentale, poi a Zanji, nell’Africa orientale, con il primo viaggio verso l’India di Vasco Da Gama, pochi anni dopo il fatidico 1492, poi con la sanguinosa «scoperta», ad opera di Magellano, dei popoli del «comunismo primitivo» nell’Asia sud-orientale, poi ancora con la conquista dell’Indonesia da parte degli olandesi, quella dell’India e dell’Australia ad opera degli inglesi, e infine quella del Madagascar e dell’Indocina da parte dei francesi. Nell’era dell’imperialismo, «fase suprema del capitalismo», tale fu il costo umano di ciò che Marx definì eufemisticamente «la sanguinosa nascita del capitalismo».

Solo la quadrimillenaria civiltà cinese scampò a questo olocausto che si produsse nel corso di poco meno di un millennio, e ci riuscì soltanto fino alle guerre inglesi per l’oppio della metà del XIX secolo. Il genocidio causato dalla distruzione globale del comunismo primitivo ad opera del colonialismo capitalista fece 300 milioni di vittime, più o meno 100 milioni per ognuno dei continenti coinvolti: America, Africa e Asia. Nell’insieme, includendo i genocidi su scala tipicamente europea perpetrati dopo le conquiste a danno delle società, dei popoli e delle civiltà non europee, questa «accumulazione primitiva» affogò il «comunismo primitivo» nel suo stesso sangue attraverso il corrispettivo di un centinaio di olocausti nazisti.

{1[15]} A proposito della definizione di «capitalismo vero e proprio» [in italiano nel testo originale, ndt] si veda per esempio il pur eccellente lavoro del marxista anti-imperialista italiano Silvio Serino, /L’uovo di Colombo e la gallina coloniale/, Giovane talpa, Milano 2006, pp. 79, 90-91 (l’autore è morto prematuramente nell’aprile 2008).

{2[16]} /Ibid/., p. 139.

{3[17]} A. Crosby, /Ecological Imperialism: The Biological Expansion of Europe, 900-1900/, Cambridge 1986; D.E. Stannard, /Olocausto Americano/, Torino 2001.

{4[18]} Tzvetan Todorov, /La conquista dell’America/, Torino 1984, 1992.

{5[19]} /Ibid/., pp. 161-162.

{6[20]} Bartolomé del Las Casas, /Historia de las Indias/, Fondo di Cultura Economica, Città del Messico 1951; /Brevissima Relazione della distruzione delle Indie/, Milano 1991.

{7[21]} Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés, /Historia General y Natural de las Indias/, Atlas, Madrid 1992 (parzialmente tradotto in italiano in /Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernández de Oviedo/, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990).

{8[22]} Toribio da Benevento (detto Motolinia), /Historia de los Indios de la Nueva Espana/, Porrua, Mexico 1973.

{9[23]} Juan Bautista Pomar, /RelaciĂłn de Texcoco/, c. 1582, Colonial Records, Madrid.

{10[24]} N.D. Cook, /Born to Die. Disease and New World Conquest/, Cambridge 1998.

{11[25]} Alfred L. Kroeber, /Cultural and Natural Areas of Native North Ameirca/, Berkeley 1939.

{12[26]} Angel Rosenblat, /La población indígena y el mestizaje en América/, Buenos Aires 1954.

{13[27]} S. Cook and W.W. Borah, /The Indian Population of Central Mexico, 1531-1610/.

{14[28]} F. Henry Dobyns, /Estimating Aboriginal Population, an Appraisal of Techniques with a New Hemispheric Estimate/, «Current Anthropology», VII, 1966.

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