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La rivoluzione messa ai voti

Posted by bu on Tue, 09 Feb 2021 15:34:33 +0100 in “Citazioni”, “L’Internazionale”, “Storia” and tagged with “Biennio rosso”, “Errico Malatesta”, “La strage del Diana”, “Mazurka Blu”, “Occupazione delle fabbriche”, “Rivoluzione”, “Vincenzo Mantovani”

Last modified on Sat, 21 May 2022 02:53:10 +0200

Da /Mazurka blu. La strage del Diana/, di Vincenzo Mantovani,

Seconda parte, cap. 45: /La rivoluzione messa ai voti/

Con un mio commento alla fine, scritto oggi, sabato 7 maggio 2022

Nell’estate del 1920, in seguito a un dissidio di carattere amministrativo e personale con Nella Giacomelli, Mario Perelli lasciò /Umanità Nova/{[I][1]}. Da una ditta genovese ricevette l’incarico di raccogliere inserzioni per una pubblicazione destinata alle Camere di commercio. Nonostante l’inesperienza, il lavoro gli andò bene. La giornata del neo-agente pubblicitario finiva spesso al Grand’Italia, il lussuoso ristorante della Galleria. Così, tra contratti e buone cene, Perelli passò il mese di agosto.

Io abitavo al rondò Cagnola [oggi piazza Firenze]. Da quelle parti c’è via Ruggero di Lauria, dove c’era l’officina dell’ingegner Romeo.

Una mattina sono a letto – non ho urgenza di andare a lavorare – quando sento un vociare, un tramestio. Mi alzo, vado giù. La Romeo s’è messa in sciopero. C’era una controversia che si trascinava da un certo tempo, credevano di risolverla così. Loro vanno alla Camera del lavoro, e io dietro. Pensavo: caso mai farò un servizio per /Umanità Nova/.

Vado là, e la discussione pare che si allarghi, perché viene convocato il consiglio delle leghe. Quelli della Romeo non si muovono. Io non vado neanche a mangiare.

Verso le quattro c’è la decisione: il consiglio generale delle leghe proclama l’occupazione delle fabbriche. Figurati, con la notizia calda! Attraverso Garlaschelli – il portinaio, che vendeva anche i giornali – cerco di avere informazioni precise. «Sì, ti assicuro, hanno deliberato così.» Via! Corro a /Umanità Nova/, porto la notizia.{1[2]}

Il 1° settembre 1920 il quotidiano anarchico annunciava:

La presa di possesso delle fabbriche avvenne verso le 17 [del 31 agosto 1920] simultaneamente in tutti i 300 stabilimenti di Milano. La massa operaia dopo la serrata alla Romeo comprese subito che l’unico modo per impedire la serrata generale e l’occupazione delle fabbriche da parte della forza armata era di rimanere nei reparti, tutta, compatta e unita. Verso le 17 [...] gli operai abbandonarono i reparti, circondarono gli uffici, facendo prigionieri i direttori, i capiofficina, gli impiegati; tagliarono ogni comunicazione telefonica e posero delle sentinelle alle porte.

«Quale che sia la piega che prenderà il movimento» concludeva /Umanità Nova/ «è certo che da ieri le coscienze degli operai metallurgici si sono tese, si sono destate e han capito quale immensa forza possiede la massa operaia. E ciò le sarà d’auspicio per ogni eventualità rivoluzionaria.»{2[3]} Ricorda Perelli:

Vien fuori /Umanità Nova/, con questo titolo qui, e subito si combina di fare una visita alle fabbriche occupate. Quella sera lì, verso le sei e mezzo o le sette, andammo, mi pare, dalle parti di Porta Romana, non so se era la O.M. o la Brown Boveri. C’era Quaglino, Malatesta, io e ancora un altro o due. Mica tanti, quattro o cinque persone eravamo.{3[4]}

Dice Quaglino:

Io ricordo che andammo alla Bianchi, che allora faceva le biciclette in viale Abruzzi, e alla Brown Boveri. Alle Fonderie Milanesi siamo andati un altro giorno per la morte di un compagno, che aveva fatto scoppiare una bomba{II[5]}. C’era... c’era un entusiasmo enorme. Ma entusiasmo /dentro/ la fabbrica.{4[6]}

Ricorda Perelli:

Ti avvicinavi a una fabbrica, di quelle grosse, e tutti i cancelli erano chiusi. Sul muro di cinta c’era una sentinella col fucile. E la porticina di ferro era difesa dalle guardie rosse, ormai si chiamavano così, che facevano entrare le donne con la cena per gli operai.

Era una cosa! E un movimento! In un gran silenzio, tutti si davano da fare. Cosa facessero non lo so. Ma lavoravano intorno ai camion, li blindavano con certi lamieroni per poter uscire e occupare la città. Preparavano la rivoluzione. Ti sentivi un brivido nella schiena e dicevi: è giunta l’ora, finalmente. E quasi non credevi ai tuoi occhi. Invece era la rivoluzione che cominciava. Tutti la prendevano sul serio. E il giorno dopo l’avevano presa sul serio anche i poliziotti, che stavano dall’altra parte della strada e mica si avvicinavano ai soldati della guardia rossa. Niente, facevano finta di non vederli...{5[7]}

La sensazione di Perelli, che la rivoluzione fosse cominciata, era condivisa da molti in quel momento. Si veda, per esempio, questo ricordo personale di Luigi Fabbri:

Uno spettacolo che mi dette quasi l’impressione del trionfo raggiunto fu quello che mi passò rapidamente davanti agli occhi tre o quattro giorni dopo, mentre tornavo in ferrovia a Bologna. Lungo la strada ebbi l’impressione di una regione in rivoluzione. Tutte quelle città, paesi, e fino i più piccoli villaggi della Lombardia e dell’Emilia, percorsi dal treno, davano la sensazione del movimento. Sulle fabbriche, stabilimenti e officine sventolava la bandiera rossa; ve n’erano fin sulle più alte ciminiere. Nelle stazioni, nei passaggi a livello e in certi punti strategici, squadre di lavoratori sorvegliavano che non si trasportassero truppe da un punto all’altro, pronti nel caso a dar mano ai ferrovieri per arrestare i treni. Le automobili venivano fermate per ispezionarle. E a Bologna trovai la classe operaia in armi, come a Milano. In uno stabilimento vicino a casa mia mi mostrarono delle casse piene di bombe, pronte alla bisogna.{6[8]}

Il 2 settembre l’Unione sindacale italiana invitava i lavoratori «a tenersi preparati all’urto decisivo in ogni centro industriale».

Preveniamo le Camere del lavoro, le sezioni tutte d’Italia aderenti all’Usi, che è molto probabile non si possa far giungere ovunque e in tempo le necessarie disposizioni della lotta: debbono quindi agire al momento opportuno con prontezza ed energia.{7[9]}

Ma gli operai chiusi nelle fabbriche intravedevano la possibilità di uno sbocco rivoluzionario? Si rendevano conto che era necessario uscirne al più presto per estendere l’occupazione agli altri centri del potere economico e politico? Secondo Quaglino, no:

Si doveva uscire, certo. Giolitti lo aveva capito: fin che stanno dentro il pericolo non c’è. Ma nessuno pensava di uscire. Gli anarchici volevano allargare il movimento, coinvolgere tutti gli altri lavoratori. Parliamoci francamente: uscire voleva dire essere armati. E il proletariato non lo era.{8[10]}

Diversa l’opinione di Perelli:

Occupare la fabbrica, occupare la città. Questa fu la parola d’ordine, almeno per qualche giorno. Noi avevamo delle bombe, ricavate da tubi di ghisa, che erano per l’occupazione della città, per affrontare la resistenza della polizia. Ma chi avrebbe fatto resistenza? Nessuno. Milano era nostra.{9[11]}

Ribatte Quaglino:

La nostra posizione era quella di Malatesta, che diceva: «Per abbattere la monarchia» – la questione era tutta lì – «bisogna estendere il movimento di occupazione delle fabbriche. Bisogna che i marinai occupino le navi, i postelegrafonici gli uffici postali». Allargare il movimento. Sempre per via legale. Non si parlava di prendere il fucile e occupare la questura o la prefettura, che erano i centri del potere. Malatesta sosteneva che allargando il movimento si creava un vuoto di potere. Si sarebbe neutralizzata la classe borghese e si sarebbe fatta la repubblica. Tutto lì. Solo questo poteva produrre un moto di smarrimento nella borghesia. Perché tu capisci che, finché ad essere occupate sono le fabbriche, la vita non muore. La gente andava a spasso, andava al cinema...{10[12]}

Ha scritto Luigi Fabbri:

Ciò ch’egli [Malatesta] sosteneva allora in pubblico e in privato era questo: non potersi presentare mai più un’occasione migliore per vincere quasi senza spargimento di sangue; estendere l’occupazione delle fabbriche metallurgiche a tutte le altre industrie e alle terre; dove non c’erano industrie, scendere in piazza con scioperi e sommosse locali, che distogliessero le forze armate dello stato dai grandi centri; dalle località più piccole dove non vi fosse proprio nulla da fare accorrere in quelle maggiori più vicine; scesa in campo di gruppi d’azione di fiancheggiamento; armarsi nel più gran numero possibile e intensificare la raccolta di armi. E così via.{11[13]}

Anche Perelli, tuttavia, pare d’accordo con Quaglino quando afferma che le ripercussioni dell’occupazione delle fabbriche nelle città furono assai scarse.

La gente accettava il fatto dell’occupazione e basta. Gli operai andavano, quelli che ci andavano, a fare la guardia. E dopo i primi giorni molti non ci andarono neanche più. La cosa cominciava a trascinarsi. L’entusiasmo dell’inizio era sbollito. I camion non uscivano. I socialisti rifiutavano di assumere la direzione del movimento e i sindacati, che non avrebbero voluto, erano costretti ad accettare la responsabilità di quel movimento così grande, più grande di loro, per trasformarlo in una questione sindacale. Così, ogni volta che andavi in una fabbrica occupata, il morale era sceso di due o tre gradi.{12[14]}

Ha scritto Gianni Bosio, sulla scorta degli articoli sull’occupazione delle fabbriche pubblicati da /Umanità Nova/ l’1 e il 2 settembre, che per sciogliere le difficoltà alle quali il movimento andava incontro e per forzare la mano a chi era propenso all’attesa sia il quotidiano che il movimento anarchico, come pure la direzione dell’Usi, «puntavano, speravano, dichiarandolo, in un intervento brutale e armato dello stato: ciò avrebbe fatto uscire, fra l’altro, il movimento dal corporativismo in cui era nato e si manteneva»{13[15]}. Contemporaneamente, tuttavia, era anche molto forte la sfiducia nella volontà rivoluzionaria dei sindacalisti della Cgl, per i quali si temette, fin dai primi giorni, che l’occupazione fosse solo «un bel gesto». /Umanità Nova/ dichiarava:

Per noi anarchici il movimento è molto serio, e dobbiamo fare il possibile per incanalarlo verso una maggiore estensione, tracciando un programma preciso di attuazioni, da completarsi e perfezionarsi radicalmente, giorno per giorno, /prevenendo/, oggi, le difficoltà e gli ostacoli di domani, perché il movimento non vada ad infrangersi ed esaurirsi contro gli scogli del riformismo.{14[16]}

Il 5 settembre lo stesso quotidiano «indicava nella difesa delle fabbriche il fronte unico della lotta proletaria»{15[17]} e prospettava l’opportunità di un incontro fra tutti gli organismi operai. Subito dopo, temendo che l’incontro non potesse aver luogo, o che da esso si cercasse di escludere gli anarchici e gli iscritti all’Usi, il movimento anarchico rompeva gli indugi e passava all’offensiva. Forte della propria consistenza nella regione ligure, indiceva un convegno «per decidere l’estensione dell’occupazione e per creare, anche in una sola zona, il fatto compiuto del passaggio visibile e dimostrato dalla fase economica a quella politica»{16[18]}.

A questo punto eran le cose quando l’Usi convoca un convegno a Sampierdarena la domenica sette settembre. Sono invitati e intervengono tutti i sindacati della regione ligure e di ogni corrente sindacale. A quel convegno [...] si fa presto strada l’idea di prender possesso del porto di Genova e di allargare l’occupazione tutta nella Liguria senza nulla attendere dai massimi dirigenti.

Questa volta si verifica un caso strano: la Confederazione del lavoro invia al convegno due suoi rappresentanti: uno dei massimi gerarchi, Colombino, e il compagno nostro Garino.

Lo sviluppo degli avvenimenti dimostrò in piena luce l’abile manovra confederale: impedire una decisione di occupazione locale immediata allargata, come quella a cui abbiamo accennato. Ma l’intervento di Colombino non avrebbe che ottenuto un effetto contrario; ci voleva un compagno nostro, il quale – nella più perfetta buonafede sulle intenzioni del Colombino – perorasse alla sua volta la causa della sospensiva. Della sospensiva, avvertendo che la Confederazione del lavoro si degnava di comunicare che tra pochi giorni sarebbe stato convocato da parte sua un convegno a Milano nel quale non sarebbe stata esclusa nessuna frazione sindacale e nel quale la decisione dell’occupazione generale si sarebbe potuto prenderla concordemente con tutte le forze d’Italia. Una tale impostazione delle cose non poteva che avere per risultato di convincere tutti i convenuti a Sampierdarena della ragionevolezza di non prendere una decisione affrettata. E così fu.{III[19]}

Il 7 settembre /UmanitĂ  Nova/ ammonisce:

[...] gli operai si sono asserragliati nelle loro fortezze del lavoro scacciandone i capitalisti. Il governo è un’altra volta impotente a reagire e cerca un accomodamento e un compromesso con gli operai. Se riuscirà a farli uscire dalle fabbriche, si rimangerà poi abilmente tutte le promesse, magari anche quella della liberazione delle vittime politiche, e si preparerà alacremente ad allestire nuovi mezzi di difesa e di offesa contro i lavoratori per salvare ancora una volta la baracca borghese. [...] Un’occasione così favorevole per iniziare l’espropriazione dei capitalisti col minimo sacrificio di sangue non si presenterà mai più!

E, avendo forse raccolto le voci di una non improbabile compravendita, conclude il suo appello con un’invocazione di tono quasi biblico: «Operai [...]. Guai a voi ed ai vostri figli se vi lasciate ancora una volta ingannare!»{17[20]}.

Se è vero che gli anarchici, proclamando l’occupazione delle fabbriche «momento rivoluzionario» hanno assunto, come scrive Gianni Bosio, una posizione non soltanto «non [...] abborracciata e improvvisata»{18[21]} ma «di altissima responsabilità», una posizione che permette loro di trattare «un avvenimento e un congegno tanto delicato e pericoloso come l’avvio per la rivoluzione» con esemplare «coerenza propagandistica e politica», con «misura», «consapevolezza» e «diremmo quasi [...] gradualità»{19[22]}, viene spontaneo chiedersi se in definitiva non fu proprio questo senso di responsabilità, stimolato dalla manovra confederale di Sampierdarena, a comprometterne irrimediabilmente l’azione.

Il movimento anarchico e l’Usi i quali teoricamente erano spinti in avanti da un’analisi continua, rinnovantesi e corretta fino a ipotizzare che questa rivoluzione, trovando le masse naturalmente disposte a occupare tutti i luoghi di lavoro, sarebbe stata la meno sanguinosa, e che senza la spinta in avanti non vi sarebbe stata che una reazione sanguinosa, e che avevano architettato, solo architettato, di far prigionieri alcuni dirigenti confederali, cioè di toglierli dalla circolazione, al primo responsabile, decisivo impatto con il reale per un’azione che sarebbe stata determinante, esitano, rimandano e poi si ritirano.{20[23]}

Nonostante la sfiducia cominciasse a serpeggiare tra gli operai che occupavano le fabbriche («si erano disamorati, avevano visto che diventava un bidone»){21[24]}, Malatesta – che era stato uno dei primi a lanciare l’idea dell’occupazione e che qualcosa di simile aveva fatto sei anni prima ad Ancona durante la Settimana Rossa{22[25]} – continuò a girare per gli stabilimenti. Il 7 settembre diceva alle maestranze della Bianchi:

Quale che sia la piega che prenderà il movimento, voi dovete essere pronti a tutto: esso può estendersi a tutte le fabbriche, alle miniere, alla terra, ecc., senza che governo e borghesia abbiano la forza di arrestarne l’estensione e l’intensificazione. Ma se la forza bruta dei vostri padroni interverrà, non dovrete spaventarvi per questo. Attorno a voi si stringe tutto il proletariato, si stringono tutti i sovversivi rivoluzionari d’Italia. Allora sarà la lotta decisiva, e voi avrete iniziata la battaglia per la completa emancipazione dei lavoratori.{23[26]}

La denuncia, la distinzione, l’opposizione anarchica saranno però da questo momento «puramente verbali e scritte, tali cioè da dare il crisma di credibilità all’azione confederale»{24[27]}. L’8 settembre un «gruppo di operai anarchici» distribuisce nelle fabbriche di Milano un volantino:

Oggi non è più questione di trattative e di memoriali. Oggi è questione di tutto per tutto: per voi come per i padroni. Per far fallire il vostro movimento i padroni sono capaci di concedere tutto quello che domandate: poi, quando voi avrete rinunciato al possesso delle fabbriche e queste saranno presidiate dalla polizia e dalla truppa, allora /guai a voi!/ Non cedete, dunque. Avete in mano le fabbriche, difendetele con tutti i mezzi. Entrate in relazione tra fabbrica e fabbrica e coi ferrovieri per il rifornimento delle materie prime, intendetevi colle cooperative e col pubblico. Vendete e scambiate i vostri prodotti senza tenere alcun conto di coloro che furono i padroni. Padroni non ve ne debbono essere più – e non ve ne saranno se voi vorrete.{IV[28]}

Il 9 settembre, dopo aver constatato che né l’Usi né la Uai sotto state invitate al «convegnissimo» confederale in programma per il giorno dopo a Palazzo Marino{V[29]}, /Umanità Nova/ denuncia il tradimento. L’11 settembre – affidando, nota Bosio, «a uno sperato potere taumaturgico delle parole ciò che doveva essere invece esito di una azione e di consenso politico»{25[30]} – lancia un appello alle forze operaie:

Metallurgici,

qualunque cosa stiano per decidere «i dirigenti», non abbandonate la fabbrica, non cedete la fabbrica e non consegnate le armi. Se oggi uscite dalla fabbrica, domani non vi rientrerete che decimati, dopo di esser passati sotto le forche caudine della tracotanza padronale.

Operai di tutte le industrie, arti e commerci; seguite “subito” i metallurgici nell’occupazione degli stabilimenti, dei cantieri, dei depositi, dei panifici e dei mercati.

Contadini, occupate la terra!

Marinai, occupate le navi!

Ferrovieri, non fate marciare i treni se non per la causa comune! Postelegrafonici, sopprimete la corrispondenza della borghesia! Una imprevista possibilitĂ  viene prospettata dalla occupazione delle fabbriche: quella di compiere una grande rivoluzione, senza spargimento di sangue e senza disorganizzare la vita nazionale. Non lasciamocela sfuggire!

E voi soldati fratelli nostri, ricordatevi che quelle armi che vi hanno dato per difendere il privilegio e massacrare i proletari che anelano alla loro emancipazione possono essere adoperate contro gli oppressori e [per] la redenzione dei lavoratori tutti.{26[31]}

Parole inutili. Il 10 settembre, a Palazzo Marino, la rivoluzione era stata messa ai voti e rinviata a una occasione piĂą propizia. Ricorda Perelli:

Dopo i primi giorni, ch’io sappia, non siamo più andati in giro per le fabbriche. Il momento era passato. Eh, le cose bisognava farle di slancio. Malatesta insisté fino alla fine, parlando e scrivendo{VI[32]}. Per onor di bandiera, ma non ci credeva più nemmeno lui. Non ci credeva più nessuno. Dopo otto giorni era finito tutto.{27[33]}

E gli anarchici, erano tutti d’accordo con Malatesta?

C’era una diversificazione di attività. Chi faceva il suo giornalino continuava a farlo. Chi discuteva di Nietzsche o di Kropotkin continuava a discuterne. C’era una parte, la parte sindacalizzata del movimento anarchico, che partecipava attivamente anche perché era in fabbrica. Ma gli anarchici come... ideologia erano spezzettati. Ognuno aveva la sua chiesuola.{28[34]}

E l’Usi non era un momento coagulante?

No, l’Usi non aveva mai goduto di troppa considerazione tra gli anarchici. L’Usi, in fondo, era legalitaria, perché il movimento sindacale non esce dalla legalità: devi riconoscere un padrone e lottare con lui sul terreno dei fatti. Non c’era molto slancio verso l’Usi. La si considerava uno strumento per diffondere certe idee, non un organismo capace di far qualcosa. Nell’organismo non si aveva molta fiducia.{29[35]}

Ci fu la sensazione che le masse l’avrebbero pagata?

No, no, no. Il pensiero della «grande paura»? Credo che non li abbia neanche sfiorati. No. A Milano, almeno, andò così. Pochi capirono che si era perduta una grandissima battaglia.{30[36]}

Scrive Gino Cerrito:

L’entusiasmo che animava gli anarchici durante le settimane di occupazione delle fabbriche è perfettamente rispecchiato dalle colonne di /Umanità Nova/. [...] Ma il movimento rimase slegato e quasi isolato località per località; mentre i dirigenti confederali, con il tacito consenso della pavida direzione socialista, coordinavano i loro sforzi con Giolitti per svuotarlo di ogni contenuto rivoluzionario, ostacolando altresì il suo estendersi.

D’altra parte, dopo i primi giorni, il blocco borghese contro l’occupazione si irrigidì e fu evidente che, facendo a meno del credito e dell’organizzazione bancario-commerciale a cui gli stabilimenti erano legati, il movimento non avrebbe resistito a lungo. Anarchici, comunisti, sindacalisti sostenevano in maniera differenziata che, per sopravvivere e trasformarsi in rivoluzione sociale, il moto avrebbe dovuto uscire dalle fabbriche e usufruire della solidarietà coordinata della classe lavoratrice tutta. Sarebbe stata – scriveva allora Malatesta – la rivoluzione meno sanguinosa [...].{31[37]}

Tre volte nel dopoguerra, secondo Luigi Fabbri, le istituzioni monarchiche erano state a un pelo dall’esser rovesciate. La prima nel 1919, quando i moti del caroviveri si propagarono in tutta Italia «come una striscia di fuoco», qua e là favoriti anche da elementi militari. La seconda nel 1920, quando la rivolta militare di Ancona provocò uno scompiglio nel governo: allora «una mossa audace sarebbe bastata a far proclamare la repubblica, cui [...] era disposta favorevolmente anche una parte della borghesia». La terza fu rappresentata dall’occupazione delle fabbriche, finita la quale il governo avrebbe confessato di non aver mai avuto le forze sufficienti per espugnare «tante fortezze quanti erano gli stabilimenti» dove si erano trincerati gli operai.{32[38]}

L’occupazione fallì e la responsabilità maggiore di questo fallimento fu dei socialisti.

Ma un po’ di responsabilità [...] spetta anche agli anarchici, che negli ultimi tempi avevano conquistato un notevole ascendente sulle masse e non seppero utilizzarlo. Essi sapevano, per averlo mille volte detto prima e per averlo ripetuto nel loro congresso a Bologna [...], /che cosa bisognava fare/. Il governo e la magistratura, anzi, credettero proprio che gli anarchici avessero fatto quel lavoro di preparazione che tanto avevano propugnato.{33[39]}

Per questo, quando anche gli operai più ostinati furono costretti a rientrare nei ranghi, la reazione si scatenò. L’abbandono delle fabbriche fu «come il principio della ritirata per un esercito che aveva fino a quel giorno avanzato»{34[40]}.

Mentre lo scoraggiamento si propagava nelle file del movimento operaio, il governo riprendeva animo. Una pioggia di perquisizioni e di arresti si abbatté sugli anarchici, che erano in quel momento il gruppo rivoluzionario più aggressivo e meno numeroso{VII[41]}. Quando qualcuno chiese il loro aiuto, i socialisti spalancarono le braccia: che cosa avrebbero potuto fare? Gli anarchici furono lasciati soli. E su quella grande sconfitta del movimento operaio il fascismo costruì il suo regno di violenza e di oppressione{VIII[42]}.

NOTE

{I[43]} Nella Giacomelli era il consigliere delegato della società proprietaria del giornale. Il dissenso fu provocato dall’offerta della Giacomelli a Perelli di una percentuale sui crediti da recuperare, offerta che Perelli ritenne incompatibile con l’ideologia anarchica. Sulle dimissioni di Perelli cfr. /Umanità Nova/, 8 agosto 1920.

{II[44]} L’anarchico Bertolotti, ucciso a ventidue anni dallo scoppio di una bomba caduta accidentalmente da un carrello. (Cfr. /Umanità Nova/, 16 settembre 1920.)

{III[45]} /Fabbriche. «L’Occupazione»: 34 anni fa/. Supplemento al n. 29 di /Umanità Nova/, Roma, settembre 1954, p. 13. «Garino non poteva penetrare nei retroscena segreti e loioleschi di Colombino. La solennità della proposta e dell’occasione lo convinsero a sostenere anche lui questo punto di vista. Molti altri aderirono. Quindi la decisione estrema fu rimandata. Se il convegno avesse insistito nell’occupazione immediata, tutti avrebbero detto che l’Unione sindacale era formata da gente intrattabile, maniaca della scissione.» (A. Borghi, /Mezzo secolo cit./, p. 249.)

{IV[46]} /Un trentennio cit./, pp. 41-2. Il manifesto, non firmato, secondo Fabbri era stato scritto da Malatesta. Vedilo, completo, in /UmanitĂ  Nova/, 10 settembre 1920, raccolto in E. Malatesta, /Scritti/, /cit./, vol. I, pp. 154-5.

{V[47]} Furono invitati a partecipare alla riunione anche la direzione del partito socialista e il gruppo parlamentare socialista; e a puro titolo consultivo, senza diritto di voto, i rappresentanti dei ferrovieri, dei marittimi, dei portuali, degli impiegati statali e dei postelegrafonici (tutte organizzazioni non confederate).

{VI[48]} «Voi avete» diceva il 14 settembre alle maestranze degli stabilimenti metallurgici Levi e Bologna «iniziata la rivoluzione in Italia. Le passate rivoluzioni avevano cangiato il governo, senza che l’assetto sociale borghese venisse distrutto. Oggi invece gli operai si sono impadroniti dei mezzi di produzione, e per questo fatto nuovo essi hanno iniziato la vera rivoluzione. I padroni, se vorranno mangiare, dovranno lavorare come voi e con voi; il governo è impotente a fermare colla forza bruta la vostra marcia. [...] Malgrado le decisioni dei “pompieri”, la causa della rivoluzione non è ancora perduta [...].» (/Umanità Nova/, 16 settembre 1920.) «Se le circostanze v’imporranno di lasciare malgrado tutto le officine» disse il 20 settembre agli operai e alle operaie della Fibra Vulcanizzata di viale Monza «lasciatele con questo sentimento: che per il momento, per l’inettitudine dei vostri dirigenti, siete stati sconfitti, ma che presto riprenderete la lotta, e allora non sarà per ottenere delle concessioni che si risolvono in una mistificazione ma per espropriare definitivamente i vostri sfruttatori [...].» («Tutto non è finito!», /ibidem/, 22 settembre 1920, raccolto in E. Malatesta, /Scritti/, /cit./, vol. I, pp. 164-5.)

{VII[49]} Già il 30 settembre, a pochi giorni dall’inizio della restituzione delle fabbriche ai rispettivi proprietari, il guardasigilli Fera, redarguito al senato per la sua «inerzia», rispose: «Procedimenti penali sono stati iniziati dappertutto. A Milano sono già in corso 14 processi per le occupazioni». (/Un trentennio cit./, p. 45.)

{VIII[50]} L. Fabbri, /La controrivoluzione cit./, p. 178; G. Cerrito, introd. a E. Malatesta, /Scritti scelti/, /cit./ «L’occupazione delle fabbriche e delle terre», scrisse Malatesta nel 1924, «era perfettamente nella nostra linea programmatica. Noi facemmo tutto quello che potevamo, coi giornali e con la nostra azione personale nelle fabbriche, perché il movimento si intensificasse e si generalizzasse e avvertimmo, purtroppo buoni profeti, gli operai di quello che sarebbe successo loro se avessero abbandonato le fabbriche, aiutammo a preparare la resistenza armata, prospettammo la possibilità di fare la rivoluzione quasi senza colpo ferire se solamente si fosse mostrata la decisione di adoperare le armi che si erano accumulate. Non riuscimmo, e il movimento fallì perché noi eravamo troppo pochi e le masse troppo poco preparate. Quando D’Aragona e Giolitti concertarono la burla del controllo operaio, coll’acquiescenza del partito socialista, che allora era diretto dai comunisti, noi gridammo al tradimento e ci prodigammo nelle fabbriche per mettere in guardia gli operai contro l’inganno iniquo. Ma appena fu diramato l’ordine della Confederazione di uscire dalle fabbriche, gli operai docilmente ubbidirono all’ordine quantunque disponessero di possenti mezzi militari per la resistenza. La paura in ciascuna fabbrica di restare soli a combattere e le difficoltà di assicurare l’alimentazione dei vari presidii indussero tutti alla resa, malgrado l’opposizione dei singoli anarchici sparsi per le fabbriche. Confederazione e partito socialista, comunisti compresi, si misero contro e tutto doveva finire con la vittoria dei padroni.» (/Pensiero e volontà/, 1° aprile 1924, /cit./ in S. ARCANGELI, /Errico Malatesta e il comunismo anarchico italiano/, Milano, Jaca Book, 1972, p. 134.)

~

{1[51]} Interv. Perelli, 10 maggio 1973.

{2[52]} /Umanità Nova/, 1° settembre 1920.

{3[53]} Interv. Perelli, 10 maggio 1973.

{4[54]} Interv. Quaglino, 21 luglio 1973.

{5[55]} Interv. Perelli, 10 maggio 1973.

{6[56]} «L’opinione di Fabbri (Da un articolo del settembre 1920)», in /Umanità Nova/, settembre 1954, suppl. al n. 39, pp. 8-9.

{7[57]} /UmanitĂ  Nova/, 3 settembre 1920, /cit./ in G. Bosio, /op. cit./, p. 57.

{8[58]} Interv. Quaglino, 21 luglio 1973.

{9[59]} Interv. Perelli, 12 novembre 1974.

{10[60]} Interv. Quaglino, 21 luglio 1973.

{11[61]} E. Malatesta, /Scritti/, /cit./, vol. I, p. 17.

{12[62]} Interv. Perelli, 12 novembre 1974.

{13[63]} G. Bosio, /op. cit./, p. 57.

{14[64]} /UmanitĂ  Nova/, 4 settembre 1920, /cit./ in S. ARCANGELI, /Errico Malatesta e il comunismo anarchico italiano/, Milano, Jaca Book, 1972, p. 133.

{15[65]} G. Bosio, /op. cit./, p. 57.

{16[66]} /Ivi/, pp. 57-8.

{17[67]} /UmanitĂ  Nova/, 7 settembre 1920, cit. in S. Arcangeli, /op. cit./, p. 133.

{18[68]} G. Bosio, /op. cit./, p. 53.

{19[69]} /Ivi/, p. 57.

{20[70]} /Ivi/, p. 59.

{21[71]} Interv. Perelli, 10 maggio 1973.

{22[72]} S. Arcangeli, /op. cit./, p. 132.

{23[73]} /UmanitĂ  Nova/, 8 settembre 1920.

{24[74]} G. Bosio, /op. cit./, p. 59.

{25[75]} /Ibid./

{26[76]} /UmanitĂ  Nova/, 11 settembre 1920.

{27[77]} Interv. Perelli, 12 novembre 1974.

{28[78]} /Ibid./

{29[79]} /Ibid./

{30[80]} /Ibid./

{31[81]} G. Cerrito, introd. a E. Malatesta, /Scritti scelti/, /cit./, p. 55.

{32[82]} L. Fabbri, /La contro-rivoluzione preventiva/, /cit./, pp. 175-6.

{33[83]} /Ivi/, p. 177.

{34[84]} /Ivi/, p. 178.

Leggendo le conclusioni cui {Bosio[85]}, socialista, arriva a grande distanza temporale dai fatti, ovvero nel 1970[*], per quello che sono, ovvero una critica molto tardiva a noi anarchici per quel che all’apice del {biennio rosso[86]} non facemmo («al primo responsabile, decisivo impatto con il reale per un’azione che sarebbe stata determinante [si riferisce al fatto che, come racconta egli stesso poco prima, avevamo “architettato, solo architettato, di far prigionieri alcuni dirigenti confederali”], esitano, rimandano e poi si ritirano» – {vedi qui[87]} la citazione completa, se vuoi, e puoi tornare poi a quanto stai leggendo ora premendo il tasto “indietro” del tuo browser), le trovo molto scorrette dal punto di vista storico, perché se davvero in quel contesto avessimo fatto prigioniero qualche dirigente confederale, tra i quali non pochi erano i socialisti, non avremmo ottenuto altro che un radicale affievolirsi della fiducia degli operai e del resto della classe lavoratrice di allora nei nostri confronti e nei confronti della possibilità; e le trovo molto scorrette anche dal punto di vista etico: quello di Bosio è un tentativo di scaricare la colpa storica dei dirigenti socialisti di allora, i quali non fecero nulla per dare sbocco rivoluzionario al movimento nonostante da tanto tempo dichiarassero di perseguire la rivoluzione sociale come passo necessario per costruire il socialismo, sul movimento anarchico. Le stesse critiche rivolgo a Mantovani quando scrive «viene spontaneo chiedersi se in definitiva non fu proprio questo senso di responsabilità, stimolato dalla manovra confederale di Sampierdarena, a comprometterne irrimediabilmente l’azione» [a compromettere, cioè, la possibilità di un buon esito dell’azione di noi anarchici][{vedi qui[88]} la citazione completa, se vuoi]. Anche per questo sono totalmente d’accordo con la riflessione fatta da Malatesta poco dopo gli eventi (vedi nota {VIII[89]}).

[*] G. BOSIO, /La grande paura. Settembre 1920: L’occupazione delle fabbriche/, Roma, Samonà e Savelli, 1970, p. 22

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[85] Bosio

[86] biennio rosso

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