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2015-01-12
Che poi, quando ero piccolo, non mi piaceva per niente andare a Gazzada.
Dai miei nonni, in quel paesotto sperduto alle porte di Varese; poche anime contadine. Il grande cortile con la ghiaia dove giocare, e nessun altro bambino con cui farlo.
Con la nonna che mi portava a far la spesa o a guardare i pesci rossi nella vasca sotto la statuetta della Madonna, naturalmente posta in cima a una lunga e ripidissima salita.
La domenica a messa con le vecchiette amiche sue, che mi baciavano tutte, coi loro baffetti e la barba che mi pungeva: “Ma ti te see ‘l nevut de la sciura Carla! Ma va la che bel fieou! Smack smack”; ma tu sei il nipote della signora Carla, che bel bambino, e bacio e bacio. E io chissà che faccia facevo, che i bambini non sanno mentire con gli occhi, e si capisce bene quando non vogliono fare qualcosa.
Non mi piaceva restare lontano dalla mia cameretta, dai miei giocattoli. La noia di quelle lunghe giornate, senza niente da fare, quando i miei erano via per lavoro e io restavo dai nonni, parcheggiato. A contare i giorni, le ore prima del ritorno casa mia.
Lo strano è che se me lo chiedi; se me lo chiedi adesso dico; se mi chiedi che cosa facevo di tanto bello e divertente a Milano quando i miei erano tornati a prendermi e mi avevano riportato a casa; ecco se mi chiedi questo, io proprio non me lo ricordo.
Però Gazzada me la ricordo bene.
Mi ricordo il cortile col portico dove le donne stavano al pomeriggio a fare la maglia e a chiacchierare. Mia nonna, la sciura Lia, la sciura Pina, la Piera. Mi ricordo la sciura Macchi del secondo piano, che non usciva mai perché era malata; ma io una volta l’avevo vista affacciata al balcone, e mi aveva fatto paura ed ero corso via.
Il sciur Bruno che tornava col Garelli dal lavoro in fabbrica, tutto rosso in faccia e con un dente solo, giallo, che gli spuntava dalla gengiva di sotto. E io che gli chiedevo se mi faceva guidare il motorino e lui rideva e mi rispondeva sempre “Va in leech che l’è ura”, vai a letto che è ora.
C’era il bersò che dava sulla piazza del paese, e da lì si vedeva il passaggio a livello. E quando suonava la campanella io correvo sempre a vedere passare il treno, e mio nonno mi spiegava: “Questo è il diretto per Milano”, “Questo è il locale per Varese”, cose così.
E mi raccontava che quando era piccolo, da lì passava il treno dei feriti della guerra mondiale, la prima guerra mondiale; tutto dipinto di bianco con la grandi croci rosse sulle fiancate. E con sua mamma una volta erano scesi a portare dei regali o cose da mangiare, non so bene. Erano cento anni fa.
Mi ricordo della Micia, la gatta del cortile; mia nonna che le dava sempre le scatolette da mangiare; e di quella volta che era sgattaiolata dentro casa e lei l’aveva cacciata con la scopa.
Il pollaio con le galline, e la Piera che ci portava le uova appena fatte, da bere crude, con un po' di sale e basta.
E poi mi ricordo della Sonia, la figlia del sciur Alfonso, che aveva dieci anni più di me ed era sempre allegra e mi faceva sempre giocare; ed era così carina coi capelli biondi e gli occhi chiari; e io mi ci ero un po' innamorato.
Sembrava sempre tutto uguale a Gazzada, ogni volta che ci ritornavo. E invece lentamente tutto cambiava. Ogni volta tutti erano un po’ più vecchi, magari qualcuno era andato via, qualcuno era morto. E quelle case, quel cortile invecchiavano ogni giorno un poco di più, insieme a chi ci viveva.
Quel giardino, quelle case ci sono ancora. Ma non c'è più nessuno dentro. Da anni.
Vendute. Vendute anni fa a un’immobiliare che voleva buttar giù tutto per farci un bel palazzo nuovo. Poi è venuta la crisi e l’immobiliare è fallita, e allora tutto è rimasto lì.
Come un fantasma di quello che era. Che non tornerà più.