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1999-09-08
Sono un soldato del 152° reggimento fanteria, ero effettivo da meno di tre mesi, quando mi hanno mandato in missione di pace in un paese lontano, che prima di allora avevo a malapena sentito nominare. Missione di pace significa dare armi e soldi ai buoni e sparare ai cattivi.
E nell'esercito facevo, più che altro, questo; nascosto dietro i miei bravi sacchi di sabbia, con in mano il mio caro fucile, me ne stavo lì, in appostamento, sparando di tanto in tanto dall'altra parte di un ponte bucherellato dalle granate, senza neanche mirare a qualcosa di preciso; più che altro per passare il tempo, per non annoiarmi troppo.
Dall'altra parte i cattivi. Quando ne catturiamo qualcuno, lo consegnamo ai paramilitari, ai buoni che ci ringraziano nella loro lingua stonata, incomprensibile, con grandi sorrisi e strette di mano; quando ci allontaniamo li interrogano. Poi gli sparano, senza tanti complimenti.
Lo so perchè li ho visti, una volta dietro un muretto diroccato, ultima testimonianza di quella che, un tempo lontano, doveva essere stata una casa. I prigionieri, una decina, erano in ginocchio, con le mani legate dietro la schiena; il comandante camminava su e giù; poi ne ha scelto uno, non so in base a quale ragionamento e gli ha sparato alla nuca, poi a un altro e poi a un altro ancora. Accortosi di me, mi si è avvicinato sorridendo.
-- Terroristi ... -- ha detto nella sua parlata biascicata, con il suo strano accento, come per giustificarsi; ha gridato qualcosa e i paramilitari hanno portato via i cattivi, dentro, nel comando della polizia locale.
Poi i cattivi mi hanno catturato. Mi ero allontanato per fare pipì, ho sempre avuto difficoltà a pisciare se c'è altra gente intorno, così mi ero allontanato dagli altri; avevo girato l'angolo del palazzo per trovare un po' di pace e soddisfare il mio bisogno.
Ero tranquillo, la zona dove mi trovavo era ``disinfestata'' dai terroristi, l'aveva detto il Generale. Tanto disinfestata, che i terroristi che non dovevano esserci mi hanno picchiato il calcio di un fucile sulla testa, mi hanno chiuso in un sacco e mi hanno trascinato nella zona occupata.
Non temevo per la mia vita; i cattivi non uccidono i soldati occidentali in missione di pace, siamo troppo utili come merce di scambio, la testa mi doleva e mi stava spuntando un enorme bernoccolo sulla nuca.
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La mia prigione era buia e umida; dopo due mesi di sole quella sera iniziò a piovere a dirotto, come se non avesse mai dovuto smettere; dal soffitto di quella casupola di legno, filtravano grandi gocce d'acqua che, cadendo, emettevano uno strano rumore, al contatto con la terra battuta. In un angolo era sistemata una piccola branda e una cassa di legno che funzionava da comodino.
Passai la notte rimpiangendo il sacco a pelo in dotazione all'esercito, con il ricordo del mio letto di casa che si faceva sempre più lontano. Pensavo al giorno in cui avevo deciso di firmare quel cazzo di foglio. Sono un VFP, volontario in ferma permanente; uno dei tanti imbecilli che, pensando al lauto stipendio, alle agevolazioni nei concorsi pubblici, pensando al fascino della divisa o a una sicura e tranquilla carriera militare, dopo una settimana di leva, una sola settimana di leva, decidono di fottere tre anni della loro vita per servire la patria.
Ricordo di aver iniziato a rimpiangere la mia scelta cinque secondi dopo aver consegnato il foglio. Avevo anche pensato di rincorrere il sergente e dirgli che avevo cambiato idea. Poi avevo desistito, un po' per timidezza, un po' perchè non sapevo, non capivo ancora veramente il guaio in cui mi stavo cacciando.
Dopo sei mesi, chiuso dolorante in una vecchia capanna sporca e malconcia, in una buia notte di pioggia, senza sapere cosa mi avrebbe riservato il domani, allora ... solo allora, lo capivo.
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L'indomani, alle prime luci dell'alba, qualcuno entrò nella capanna. Era un ragazzino di non più di quattordici anni; indossava i pantaloni di una vecchia tuta da ginnastica, e una giacca militare lurida e sgualcita. Mi venne incontro, con il fucile puntato; aveva uno sguardo indefinibile, un misto di rabbia e paura. Si fermo più di un metro di sistanza da me e, nella sua lingua incomprensibile, spiegandosi con ampi gesti delle braccia, mi disse di alzarmi e seguirlo.
La pioggia era cessata, il timido sole del mattino rischiarava il cortile interno a un gruppo di palazzi, alcuni ancora in piedi, altri distrutti dalle ``bombe intelligenti''; era stato riadattato a piazza d'armi. La baracca di legno, probabilmente, un vecchio magazzino degli attrezzi, era posta di lato, vicino ad un cumolo di macerie; sul tetto sventolava la bandiera dei cattivi. Entrammo in uno dei palazzi, salimmo al secondo piano.
-- C'è qualcuno che parla la mia lingua? -- chiesi, con l'intonazione più pacifica e cordiale che riuscii a ottenere.
La stanza era piccola, senza finestre, illuminata da una luce al neon. Il ragazzino mi fece sedere su una vecchia sedia di legno, bucherellata dalle tarme. Davanti a me un tavolaccio, anch'esso di legno, e un uomo, sulla quarantina con vestiti borghesi. Di lato altri due uomini armati e, seduta, una donna che allattava un bambino di più di due anni.
-- Io parla, -- disse l'uomo dietro il tavolaccio -- quale è tuo nome?
Risposi, con nome, matricola e acquartieramento, come avevo visto fare nei film di guerra americani. L'uomo mi guardò divertito. Mi disse che ero prigioniero del comitato di liberazione patriottica, o qualcosa del genere; che mi avrebbero trattenuto fino alla liberazione di sei loro compagni rinchiusi nel campo di concentramento dei paramilitari. Aggiunse che non avevo da preoccuparmi, che le autorità del mio paese si sarebbero mosse in fretta per ottenere la mia liberazione.
Pensai al Generale, con la poltrona che già gli scottava sotto al culo, chiuso nel suo ufficio a telefonare al comando della polizia locale per concludere velocemente questo increscioso, spiacevole disguido.
Poi il ragazzino, tirandomi per la spallina dell'uniforme, mi fece alzare e mi riaccompagnò alla capanna.
Solo con i miei pensieri, presi a pensare alla situazione. Speravo che i cattivi sapessero quello che stavano facendo; per quanto ne sapevo nel campo di concentramento dei buoni, i prigionieri non resistevano più di due o tre mesi.
Ricordavo, la visita del ministro nella città; nei giorni precedenti c'era un grande viavai di paramilitari, dentro e fuori dal campo. Un mio compagno diceva di aver visto un camion carico di cadaveri nudi, che correva in fretta fuori dalla città. Dall'ufficio del colonnello era sparita la foto del duce e avevano fatto cancellare le scritte razziste dai muri; non si salutava più con il saluto romano ed erano perfino arrivate le uniformi nuove.
La televisione aveva intervistato i bravi ragazzi che riportano la pace in questa terra dilaniata da lotte fratricide.
Qualche ora dopo, una ragazza, sui vent'anni, mi portò il pranzo. Una minestrina insipida e un tozzo di pane nero.
-- Mi capisci? -- chiesi, il più lentamente possibile.
Non mi rispose; mi guardò seria seria, per qualche secondo.
Poi, improvvisamente come era apparsa, la ragazza se ne andò e prima di chiudere la porta dietro di lei, per un attimo, mi sorrise, con il sorriso più dolce del mondo.
Non era alta: circa uno e sessantacinque, la corporatura minuta; aveva i capelli neri, lunghi e lisci che le cadevano lungo le spalle, occhi di un colore indefinibile, tra il marrone e il verde. La carnagione era chiarissima. Sulla fronte, all'altezza del sopraciglio si intravedeva una piccola cicatrice a forma di zeta.
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La sera stessa, subito dopo il tramonto del sole, scoppiò l'inferno.
Fui svegliato dallo stridulo suono della sirena dell'allarme aereo. Fuori, nel cortile c'era una gran confusione, gente che gridava e correva, cercando di raggiungere più velocemente possibile i rifugi.
Quando vedevo, da lontano, i bombardamenti americani sulla zona controllata dai cattivi, sembravano spettacoli di fuochi d'artificio. Ricordo che andavamo alla finestra, per gustarci lo spettacolo. Qualcuno urlava, altri applaudivano. La guerra vista da lontano cambia aspetto; è un grande, divertente, spaventoso gioco.
Temevo si fossero dimenticati di me. Si iniziarono a udire i tuoni dei ``missili intelligenti'' che colpivano, come sempre, a casaccio case, caserme o ospedali. Dapprima lontani, li sentivo, ogni minuto ... ogni secondo che passava avvicinarsi. Dopo un tempo che mi parve interminabile, arrivò la ragazza.
-- Via, via, corre! -- disse puntandomi il fucile nel petto.
Uscimmo nel cortile e mi indicò uno dei palazzi. Iniziammo a correre, lei dietro di me, sempre con il fucile puntato. Poi un frastuono assordante, la baracca era stata colpita e distrutta. La ragazza era a terra ferita, il fucile qualche metro più in là.
Avrei potuto scappare, nessuno mi avrebbe notato in mezzo a quella confusione; avrei potuto tornare alla caserma e ricevere una medaglia e una promozione.
Non lo feci; non so perchè e credo che continuerò a chiedermelo per il resto della mia vita, non lo feci. Tornai indietro raccolsi il fucile e lo restituii alla ragazza; la aiutai ad alzarsi e a raggiungere il palazzo.
-- Grazie! -- mi disse con un filo di voce, con il suo strano, bellissimo accento. Poi un uomo, credo un medico, la soccorse; io fui preso e accompagnato giù nelle cantine.
Nelle cantine del palazzo c'era circa una cinquantina di persone. Più della metà erano donne e c'erano diversi bambini, che, incuranti del rumore assordante e spaventoso, continuavano i loro giochi.
E' atroce l'atmosfera dei rifugi durante i bombardamenti. Tutti gli adulti in silenzio ad ascoltare il fragore delle bombe che cadono. I muscoli sono tesi, gli sguardi fissi senza guardare nulla in particolare. Si vorrebbe fare qualcosa ... una qualunque cosa per opporsi, ma non c'è niente che si possa fare. Solo aspettare e sperare che la casa colpita non sia la tua, che la bomba non sia così ``intelligente'' da scovarti, anche rinchiuso in cantina, un metro sotto il livello del suolo.
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Uscimmo dalla cantina la mattina dopo. Il fragore degli scoppi ci aveva accompagnato per tutta la notte.
Fuori, il panorama era, se è possibile, ancora più desolante di come l'avevamo lasciato la sera prima. Le case sventrate erano più di quelle rimaste in piedi; nel cielo si levavano qua e là rivoli di fumo denso e nero. Della capanna in cui avevo dormito, rimanevano solo poche assi ammassate e bruciacchiate.
Rimasi seduto per terra nel cortile, con il ragazzino del giorno prima che mi teneva il fucile puntato addosso. A una ventina di metri, i cattivi che parlavano concitatamente.
Dopo una mezz'ora il gruppetto si sciolse; l'uomo che mi aveva parlato il giorno prima, si diresse verso di me.
-- Noi portare te via, non è più possibile stare qui.
Lo diceva con aria di comando, ma sentivo nella sua voce una nota malcelata di sgomento e di rassegnazione.
La gente del cortile, gli abitanti di prima della guerra, presero a rovistare tra le macerie. Io li guradavo, sempre seduto con il fucile puntato addosso; talvolta qualcuno si girava e mi scrutava con gli occhi pieni di rancore. Ogni tanto il pianto e le grida delle donne annunciavano il ritrovamento di un cadavere.
I cattivi si preparavano alla partenza. Ammassavano armi e vettovaglie su vecchi camion scalcinati, con delle grandi scritte in russo sulle fiancate.
Una squadra di banditi che non avevo mai visto prima entrò, camminando con passo svelto, nel cortile. Erano in borghese; trascinavano un paramilitare, con la bella uniforme della polizia locale stracciata, le mani legate dietro alla schiena, gli occhi bendati e il viso malconcio.
L'uomo che mi aveva parlato il giorno prima si diresse verso di loro insieme a tre suoi compagni. Parlò con i cattivi per qualche minuto; poi, preso in consegna il prigioniero, li salutò.
Portarono il paramilitare nella cantina e vi restarono per circa un'ora. Quando uscirono ridacchiavano tra loro, sempre trascinandosi dietro il buono, che ora a torso nudo, sanguinava copiosamente.
Poi l'uomo, che doveva essere un capo, riprese a lavorare, ammassando roba di ogni genere sui vecchi camion e impartendo ordini, con voce alta e autorevole. Gli altri tre sparirono con il prigioniero dietro un palazzo. Si udirono, secchi, distinti, due colpi di pistola.
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Partimmo nelle prime ore del pomeriggio, a bordo di una vecchio jeeppone sovietico. Mi accompagnavano verso la nuova meta della mia prigionia cinque cattivi. Di fianco a me, sul sedile posteriore, il ragazzino. Non mi puntava più il fucile addosso, ma continuava a fissarmi, come se dovessi ribellarmi e scappare da un momento all'altro.
Attraversammo la parte della città controllata dai cattivi e ci dirigemmo verso le colline che sorgevano nelle vicinanze. Appena fuori dal centro abitato mi bendarono gli occhi. Lì, la fitta vegetazione impediva ai satelliti americani di scovare le colonne di ``terroristi'', lì si poteva stare al sicuro e attendere la risposta all'ultimatum.
La ragazza non c'era, era salita su un altro camion. Mi chiedevo se l'avrei mai più rivista.
Ci eravamo fermati nel mezzo della foresta, in un punto di rada. C'erano due capanne adiacenti che sembravano abbandonate. Mi sistemarono nella più piccola; non era dissimile dal vecchio magazzino degli attrezzi in cui avevo dormito la sera prima, ma non c'era la luce elettrica. Mi diedero dei cerini con cui accendere il lume a petrolio e sbarrarono la porta.
Dio, come trascorsero lunghe le ore del pomeriggio, dentro quella baracca angusta e buia. Intorno regnava il silenzio assoluto, terribile per un uomo nella mia situazione, per di più abituato da mesi a vivere in una città dilaniata dalla guerra civile, con i suoi scoppi, le sue grida, i suoi pianti. Questo silenzio era peggio, ricordava la morte, il nulla. <<E se i loro compagni sono già morti?>>, mi chiedevo; conoscevo i paramilitari e pensavo che, non solo era possibile, ma era anche probabile ... quasi certo. Cosa avrebbero fatto allora i cattivi, avrebbero posto altre condizioni? Altrimenti?
E arrivò la sera; fresca di una dolce brezza che spirava da nord. Udivo, nella capanna accanto, le voci concitate dei cattivi. Poi sentii l'odore del cibo e ricordai di non aver mangiato niente dalla sera prima; più tardi qualcuno venne a portarmi la mia razione. Mangiai avidamente.
Mi stesi sulla branda, più comoda di quanto non sembrasse a prima vista; chiusi gli occhi e caddi in quel sonno leggero, l'unico che la mia condizione di recluso, in bilico tra la vita e la morte, mi consentiva.
Erano passate circa due ore; i rumori della notte conciliavano il mio riposo quando la porta della baracca, cigolando si aprì. Apersi gli occhi, di scatto. Sull'uscio, immobile, col viso illuminato dal chiarore della luna, con i lunghi capelli neri raccolti, la ragazza mi guardava.
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Le sorrisi. Restammo immobili entrambi a guardarci, per un tempo infinito. Poi si avvicino, sempre scrutandomi con il suo sguardo dolcissimo e innocente. Si sedette sulla branda, io le accarezzai la testa. Ci baciammo; un lunghissimo, bellissimo bacio.
Quella notte facemmo l'amore. Ne sono sicuro, non mi si era concessa solo per riconoscenza. C'era qualcosa nei suoi occhi, nelle parole incomprensibili che mi sussurrava. Qualcosa di bello e puro che mai avevo incontrato prima. Era innocente, casta, anche quando gemeva di piacere. Le carezzavo i capelli, il collo, poi giù, fino ai capezzoli induriti; la sentivo tremare, fremere, trattenere le grida per non svegliare i suoi compagni.
Mi restò accanto, nel letto, fino alle prime luci dell'alba quando, improvvisamente come era arrivata, se ne andò; senza una parola di saluto, senza un ultimo bacio.
Quella lunga notte pensai, lo pensai davvero, di aver trovato l'amore.
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Passai ancora due giorni rinchiuso nella baracca, senza vedere la luce del giorno. Lei non tornò.
Poi, mi liberarono; venne il capo, quello che parlava la mia lingua, una mattina, a dirmi che i loro compagni, i cattivi, erano stati liberati e anche per me era finita la prigionia.
Uscii dalla baracca già bendato, mi caricarono su una jeep. Rividi la luce del sole alle porte della città, quando mi spinsero fuori dalla jeep e fuggirono velocemente verso la boscaglia. Mi levai la benda e mi diressi nella città.
Entrai nel primo comando della polizia locale. Mi accolse un paramilitare sorridente, con la bella uniforme grigioverde e le mostrine ben lucidate. Nella sua parlata stentata mi spiegò che ora, tutta la città era stata liberata dalle orde di terroristi; che i banditi si erano ritirati fuori città e sarebbero stati completamente sgominati nel giro di qualche mese.
Le stesse cose me le ripetè il Generale, dal quale ebbi l'onore di essere ricevuto, tornato nel campo. Mi accolse in pompa magna, stringendomi la mano e snocciolando sorrisi e pacche sulle spalle. Con quell'aria bonaria e paciosa che hanno i generali, quando passano in rassegna i reduci da una battaglia vittoriosa. Mi disse che per me la missione era finita, che sarei tornato in patria e avrei avuto venti, dico venti, giorni di licenza speciale.
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Prima di partire cercai il quartiere dove ero stato prigioniero. Era all'estrema periferia est della città, nella zona prima occupata dai cattivi. Entrai nel cortile, di tutto il complesso era rimasto in piedi soltanto un palazzo. Non c'era nessuno. Tutto intorno a me era deserto, non più le voci di donne, le grida di bambini che sentivo, rinchiuso dentro il mio capanno. Non più i discorsi concitati dei cattivi, ma solo il silenzio.
Poi, improvvisamente entrò nel cortile un pulman stracarico di persone. Scesero velocemente con le loro valige, i loro ombrelli, i loro bambini in braccio. Era gente diversa, ma aveva la stessa aria di povertà e tristezza. Si precipitarono verso il portone aperto, li sentii salire velocemente le scale, per accaparrarsi le stanze i letti migliori. Abbassai gli occhi e mi girai verso l'uscita; mi diressi lentamente verso il campo.
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Una settimana dopo ero già a casa, a poltrire sulla mia poltrona, leggendo fumetti, guardando la televisione. Tutto lo schifo che avevo visto e vissuto sembrava lontano, lontano mille miglia dalla mia stanza calda e sicura. Tutti mi salutavano, con un fare di ammirazione, come se avessi fatto chissà cosa; in fondo mi ero fatto prendere prigioniero, m'ero fatto rinchiudere in un sacco e portar via; non ero certo un esempio di combattente, non ero un eroe e non desideravo neanche esserlo.
Non raccontai mai a nessuno della ragazza; a chi mi chiedeva quante belle straniere mi fossi scopato, rispondevo cinque o sei, con quel tono da pallista spaccone che ti insegnano fin troppo bene nell'esercito. Ogni tanto ripensavo a quella notte, nella baracca in mezzo al bosco, immerso nel silenzio; ripensavo ai suoi occhi, alle sue labbra, al suo odore ...
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L'altra sera ho visto il telegiornale, distrattamente come al solito. C'era un servizio sulla guerra, era da tanto che non se ne parlava; non faceva più notizia ora che i terroristi erano stati quasi sgominati e la democrazia era stata riportata in quella terra infelice. Il montaggio delle immagini era serrato, per stare dentro i trenta secondi di servizio, dopo gli Spettacoli e prima dello Sport. Si intravvedeva in pochi fotogrammi, il primo piano di una ragazza riversa in una fossa, con gli occhi sbarrati. Una pozza di sangue rappreso sporcava i suoi lunghi capelli neri e, sulla fronte, all'altezza del sopraciglio, aveva una piccola cicatrice a forma di zeta.