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Pranzo e dopopranzo

1996-04-19

Sceso dal pullman mi fermo a guardare i titoli dei giornali in edicola. E’ una libertà che mi prendo tutti i giorni; con circospezione, uno dopo l’altro apro i giornali ordinatamente disposti sul banco dell’edicolante e ne sbircio la prima pagina. Di solito, in seguito, avviatomi verso casa, sono più incazzato di prima e lancio fatture e malocchi al politico di turno.

Lesto come un’antilope, scavalco veloce il cancello del mio condominio. Lo faccio per evitare quei duecento metri di strada in più che comporterebbero lo scendere alla fermata successiva. Non di rado mi è capitato di rompermi la camicia, tagliarmi la mano, lussarmi ginocchia e gomiti (non sono mai stato molto atletico), ma la tentazione del risparmio di energia è troppo potente.

La mia è una mentalità contadina inserita nel contesto sbagliato: l’agricoltore che è in me mi impedisce di sprecare energia per cose che non siano assolutamente necessarie; ride dinanzi agli sportivoni tutta palestra, muscoli e sudore; sembra dire: “Io, sprecare fiato per correre intorno alla scuola o fare flessioni e addominali senza un motivo più che valido? Fossi matto!”.

Il problema è che i contadini si allenano zappando la terra, seminando, arando e raccogliendo i frutti del loro duro lavoro; io mi pasco, felice, nella mia tranquilla vita sedentaria. Lo sport più impegnativo e spossante che contemplo è quello di giocare a calcio una volta al mese... naturalmente in porta perché se giocassi fuori, tacendo sui penosi risultati che darebbero i miei piedi a forma di zampogna in un contrasto in area (probabilmente il mio avversario tornerebbe a casa con il femore rotto), dopo cinque minuti di corsa sarei da ricoverare in rianimazione per collasso cardio-respiratorio.

Giunto a casa, naturalmente non trovo nessuno ad aspettarmi, inizio le grandi manovre per la laboriosa preparazione del pranzo. Io sono un grande chef, un cuoco di prima categoria. Molti ristoranti tra i più rinomati d’Italia mi hanno contattato supplicandomi di dirigere la loro cucina; offrivano enormi compensi, ma io ho rifiutato; la mia arte non dev’essere condivisa da nessuno. Mi crogiolo nel mio egoismo malsano degustando, da solo, i manicaretti che preparo con amore ed esperienza.

Come stavo dicendo, apro il freezer, tiro fuori un surgelato e, con gesti sopraffini, delicatamente, con molta grazia, lo immetto nel forno a microonde. Pochi sanno riscaldare i surgelati come li riscaldo io, dopo anni di esperienza!

Finito il primo, faccio per alzarmi per tentare di inventare un secondo con relativo contorno. Le mie gambe, però, sono tragicamente paralizzate. L’abbiocco del dopo pranzo inizia a farsi strada in me. Nonostante i crampi della fame (non di soli surgelati vive l’uomo), rinuncio al secondo e passo direttamente alla frutta, che preventivamente avevo riposto sul tavolo. Una banana. La apro e ne mangio metà; come sorprendentemente spesso capita, l’altra metà è marcia. Rinuncio al mio desiderio di sazietà; lo soddisferò a merenda (sono probabilmente l’unica persona maggiore di 12 anni sulla faccia della terra, che alle 4 del pomeriggio esige ancora la merendina).

Raccogliendo le ultime forze a disposizione, disperatamente mi alzo.

Tramante sulle gambe impacciate, a passi lenti e scomposti mi dirigo verso l’agognato letto. Rantolando, mi sdraio (forse il verbo “stramazzare” rende più l’idea esatta di ciò che accade) sul mio giaciglio. Giusto il tempo di accendere la televisione e crollo nel buio sonno senza sogni. In sottofondo le voci dell’allegra famiglia Robinson risuonano in lontananza, incomprensibili parole nel deserto della mia mente.

Come d’incanto, verso le 3.30, 4 mi sveglio. Barcollo dolcemente verso la cucina e li mi siedo. E’ ancora tutto lì apparecchiato. Ne approfitto e consumo la merenda di cui ho già parlato.

E’ qui che inizia veramente il mio pomeriggio, che a seconda del tempo atmosferico, della quantità di miscela nel serbatoio del motorino e della mia disposizione mentale, offre delle simpatiche varianti.

Raramente resto in casa. Anche in caso di pioggia preferisco uscire e bagnarmi che stare in casa a decompormi lentamente.

Se fuori splende il sole, prendo il motorino (sempre a causa del rapporto particolare che intrattengo con l’attività fisica, di cui ho parlato poco fa).

Apro il box e lì in un angolo buio e triste giace il nonno di tutti i motorini della terra. Immatricolato nel ‘79, quasi mio coetaneo, da ben due anni è mio compagno inseparabile. E’ un Garelli Vip 3 marce, la prima versione mai uscita dalla fabbrica (probabilmente costruito a mano pezzo per pezzo dall’ing. Garelli), che comprai appunto due anni or sono, di quarta o quinta mano (suppongo), per la cifra di 350’000 lire italiane.

Io amo il mio motorino, lo capisco, so che sotto il lercio strato di olio puzzolente, benzina, fango e catrame, batte il cuore di un grande amico. Certo, a volte litighiamo; a volte si mette in testa di non partire e allora lo convinco con quattro calci sul carburatore; a volte la catena cade (di solito sempre in mezzo a un incrocio trafficatissimo), ma questi problemi sono ben poca cosa rispetto alla sicurezza di un grande compagno di viaggio che, senza chiedere spiegazioni, ti porta dovunque tu voglia.

Una grande fumata bianca accompagna il movimento del kick-starter (il pedale che serve per accendere il motore). Lo stoico Garelli tossicchia, borbotta, miagola indispettito; poi si risveglia, sollecitato dall’acceleratore, pronto al lungo viaggio che si prospetta.

Impaziente chiudo il box, monto in sella (Easy-rider) e mi avvio, verso nuove ed eccitanti avventure.